Medio Oriente, la logica perversa delle «interferenze straniere»
Era un incubo per gli Stati Uniti e per tutti coloro che considerano l’Iran come il regno del male assoluto. Soprannominato “il fantasma”, era considerato uno degli uomini più potenti del Medio Oriente, lo stratega e il principale esecutore della politica iraniana al di fuori dei suoi confini.
Un generale tutto d’un pezzo che comandava la forza d’élite al-Quds, aveva rapporti di collegamento al più alto livello con gli Hezbollah libanesi e anche con quella galassia sciita pro-iraniana Kata’ib Hezbollah, che nelle ultime settimane ha fatto vedere i sorci verdi agli statunitensi, arrivando ad assediare l’ambasciata a stelle e strisce di Baghdad, dopo aver ammazzato nel deserto tra Siria ed Iraq un contractor Usa, il nome “nobile” con cui vengono chiamati oggi i mercenari.
È ora diventato un incubo per l’intero Medio Oriente, Kassem Soleiman, generale ucciso nella notte tra giovedì a venerdì nel bombardamento di un convoglio all’aeroporto di Baghdad da parte di alcuni droni Usa.
Anche il leader di Kata’ib Hezbollah, una delle milizie pro-iraniane più attive in Iraq, Abu Mehdi al-Mouhandis, è stato ucciso nello stesso attacco. «Un colpo di precisione chirurgica», si vantano ufficiosamente al Pentagono.
Mentre si viene a sapere che lo stesso Trump ha dato l’ok all’uccisione: «Per ordine del presidente, l’esercito degli Stati Uniti ha adottato misure difensive decisive per proteggere il personale degli Stati Uniti all’estero uccidendo Kassem Soleiman», ha dichiarato il dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. Appena poche ore prima lo stesso Trump aveva considerato «non di attualità» un’eventuale guerra contro Teheran. Fake? Probabile.
Teheran ha confermato la morte di Kassem Soleiman: il presidente iraniano Hassan Rohani ha promesso che «Teheran e le nazioni libere della regione si vendicheranno degli Stati Uniti». Dopo più di un mese di disordini crescenti in Iraq, dovuti alla mai sopita rivalità tra sunniti e sciiti, che minacciavano la tenuta del governo in carica, domenica gli Stati Uniti avevano effettuato degli attacchi contro la milizia irachena Kata’ib Hezbollah, uccidendo almeno 25 combattenti. In tutta risposta, i sostenitori delle milizie filo-iraniane avevano manifestato assediando l’ambasciata statunitense a Baghdad, martedì e mercoledì scorsi.
Il capo del Pentagono Mark Esper aveva comunicato giovedì che gli Stati Uniti prevedevano ulteriori attacchi da parte dei paramilitari sciiti, minacciando: «Se gli Stati Uniti venissero a conoscenza di nuovi attacchi in preparazione, prenderanno le misure preventive ritenute necessarie per proteggere le vite statunitensi». Le reazioni del governo iracheno, che vede le potenze straniere fare il buono e il cattivo tempo sul loro territorio, non hanno avuto grande effetto, evidentemente.
Si può discutere all’infinito se l’atto ordinato da Trump sia stato un atto di guerra o di terrorismo. Fatto sta che un atto del genere non promette nulla di buono, e potrebbe scatenare una serie di reazioni a catena incontrollabili, che potrebbe infiammare ulteriormente il già martoriato Medio Oriente, coinvolgendo potenzialmente anche Paesi rimasti finora un po’ ai margini dei conflitti attivi, tra cui in particolare Libano ed Iraq, dove la presenza sciita è più forte e dove le rispettive classi politiche sono in stato confusionale.
La morte di Soleiman è un vero e proprio cataclisma che si abbatte sull’intera regione. Certamente la sua scomparsa violenta è un duro colpo per la Repubblica iraniana che non può permettersi di non reagire. E con tutta probabilità lo farà.
Ciò che è certo è che l’attacco Usa può legittimamente essere paragonato a una dichiarazione di guerra contro l’Iran e i suoi alleati. La decisione di Trump appare una svolta nella sua politica nella regione.
Altra notizia estremamente inquietante è che, quasi in contemporanea, Erdogan ha ricevuto il nulla osta del parlamento turco per inviare truppe di terra in Libia a sostegno del governo di Tripoli, una mossa che potrebbe aggravare il conflitto fratricida che infuria in tutto il Paese.
Donald Trump ha immediatamente messo in guardia in una conversazione telefonica con la sua controparte turca contro qualsiasi «interferenza straniera che possa complicare» la situazione in Libia. La decisione si inquadra nell’annosa guerra dichiarata tra il maresciallo Khalifa Haftar, uomo forte della Libia orientale, che ha lanciato il mese scorso un’offensiva per impadronirsi di Tripoli, dove sopravvive Il governo di unità nazionale guidato da Fayez al-Sarraj. Il quadro libico è se possibile ancora più complicato di quello iracheno, con milizie che si combattono sostenute da potenze straniere.
Al solito, il Medio Oriente evidenzia la crisi della politica internazionale, del suo diritto e delle sue istituzioni, incapaci di regolare le inevitabili tensioni che sorgono tra Paesi concorrenti.
Pare di essere ripiombati nel clima che precedeva la Seconda guerra mondiale, in cui la legge nazionalistica del più forte aveva preso il sopravvento sulla diplomazia, lasciando campo libero alle spaventose ideologie di diverso segno sposate dai vari capi di Stato. Anche oggi, pur in un mondo de-ideologizzato – almeno in apparenza – la politica internazionale fallisce miseramente. La testardaggine e l’improvvisazione di capi, piccoli e grandi, vittime di delirio di onnipotenza mette a repentaglio la sicurezza internazionale.
Delirio di onnipotenza che è un altro nome del principale male che imperversa nella regione: le ingerenze straniere. Quelle stesse di cui Trump accusa Erdogan.
Ma si potrebbe scrivere un intero trattato prendendo di volta in volta come esempi: Iran, Turchia, Arabia Saudita, Israele, Russia, Stati Uniti, Qatar, la stessa Cina e, perché no, anche diversi Paesi europei…
Nel Medio Oriente propriamente detto, così come in gran parte del Nord Africa, a dettare legge sono questi Paesi che si arrogano il diritto di difendere i loro interessi intervenendo lontano da casa propria. Nascondendo il fatto che “i propri interessi”, in un mondo avvolto nella mefitica nube del capitalismo che da liberale è diventato liberticida, non sono altro che gas e petrolio e altre ricchezze del sottosuolo.
Forse non a caso in questi ultimi anni al largo delle coste egiziane, israeliane, libanesi, cipriote, siriane e turche sono stati individuati immensi giacimenti di petrolio e, soprattutto, di gas. Ne parlavamo pochi giorni fa su cittanuova.it. Altro che ingerenze umanitarie, altro che difesa della libertà e della democrazia, altro che orgogli nazionali!
Prova ne sia che le manifestazioni scoppiate in tutta la regione dal 2011 in qua, e che attualmente conoscono
una nuova fase di crescita, sono una reazione contro questa logica perversa delle interferenze straniere che alimentano corruzione, commercio delle armi e malgoverno.
Verrebbe da disperarsi. Nessuna speranza possibile? In queste ore è morto mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, per decenni vicario apostolico dei latini a Tripoli. Alla vigilia dello sciagurato attacco franco-inglese contro la Libia, che ha portato poi alla morte di Gheddafi, ci diceva al telefono, col pianto dell’uomo cosciente della gravità della situazione ma anche con la speranza dell’uomo di Dio: «Stiamo perpetrando atti che avranno conseguenze nefaste per decenni. Stiamo attaccando l’uomo, non un uomo particolare. Ci resta l’amore e la preghiera». Profeta, certamente.