Medici al lavoro sotto le bombe

Intervista al presidente di Medici senza frontiere, Loris De Filippi, che traccia un quadro generale della situazione in cui gli operatori dell'organizzazione si trovano a portare competenze e sostegno: «Abbiamo deciso, spiega, di non ritirarci da nessuno dei conflitti in cui siamo presenti», per aiutare la gente che soffre
Medici senza frontiere

23 mila persone soccorse nel Mediterraneo dalle proprie navi, 100 mila visite mediche effettuate a rifugiati e migranti, 12 mila persone curate in Grecia e Serbia, 530 operatori attivi, con un investimento complessivo di 31,5 milioni di euro: sono questi i numeri snocciolati da Loris De Filippi, presidente di Medici Senza Frontiere Italia, a Udine in un incontro con i giornalisti.

 

Un'occasione per fare il punto sull'attività dell'organizzazione non solo in Europa, ma anche in Siria – dove Msf gestisce 6 strutture mediche e sostiene 150 centri sanitari – Yemen e Afghanistan – tristemente noto è l'episodio del bombardamento dell'ospedale di Kunduz lo scorso ottobre da parte degli Usa, con 42 vittime accertate di cui 14 membri dello staff Msf. E per lanciare l'allarme sui crescenti attacchi agli ospedali, un tempo ritenuti zone sicure.

 

Che quadro generale traccia della situazione in cui vi trovate ad operare?

«Abbiamo deciso di prendere la via del mare, allestendo delle navi in prima persona, di fronte alle cifre preoccupanti: nel solo 2016 sono stati almeno 1350 i morti nel Mediterraneo. E l'Unione Europea, che appare schiava di populismi interni e fatta da 28 Stati autarchici invece che da un'unica entità, con le sue politiche di deterrenza crea situazioni di emergenza all'interno dei suoi stessi confini: e non serve andare ad Idomeni, basta vedere i sottopassi delle stazioni di molte città. Eppure, i migranti che arrivano ai nostri confini appaiono poca cosa rispetto ai 3 milioni della Turchia, o al milione e mezzo del Libano che ha appena 5 milioni di abitanti. Allo stesso tempo, assistiamo alla distruzione delle basi del diritto umanitario internazionale: è grottesco che sia stato l'Onu, con una sua risoluzione del 3 maggio da noi sostenuta, a dover “ricordare” al mondo che gli ospedali non vanno attaccati. Eppure accade sempre più spesso: non solo in Iraq e in Siria – con l'ultimo triste episodio di Aleppo –, ma anche in Ucraina e in Repubblica Centrafricana. Ironia della sorte, questi attacchi sono stati portati avanti da 4 dei 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Siamo in una fase in cui, se l'opinione pubblica non si muove, non saremo più in grado di operare in questi contesti perché non potremo più garantire la sicurezza degli operatori, verso cui abbiamo una responsabilità».

 

Come vi ponete verso i vostri medici e infermieri in zone di rischio?

«Con molta onestà: non possiamo certo nascondere loro i pericoli che corrono. Ci sono state e ci saranno discussioni e prese di posizione anche in seno alla nostra organizzazione a questo proposito, ma per ora abbiamo deciso di non ritirarci da nessuno dei conflitti in cui siamo presenti. L'unica misura che abbiamo preso è stata quella di non mandare operatori internazionali in Siria, ma di sostenere quelli locali pur nella difficoltà di far giungere i rifornimenti. Poi ci sono gli atti eroici, come quello del pediatra di Aleppo, che non è fuggito come i colleghi: ma noi non possiamo non sentirci responsabili verso gli operatori».

 

Avete scelto di mettere in mare voi stessi delle imbarcazioni per il soccorso: siamo quindi in una situazione in cui è necessario supplire all'opera delle istituzioni?

«Noi vogliamo sostituirci alle istituzioni il meno possibile, ma di fronte ai numeri è stata una scelta obbligata. Più volte mi sono chiesto se sia stata la scelta giusta, ma le 23 mila persone soccorse mi hanno convinto a rompere gli indugi. Anche all'interno di Msf ci sono due linee di pensiero, l'una che intende puntare solo sulla pressione politica a livello europeo, e l'altra più “attivista”, ma agire noi in prima persona è forse l'unica strada per essere fedeli a ciò che chiediamo all'Europa. Poi ci auguriamo che azioni come quelle della comunità valdese e di S. Egidio, che hanno aperto vie legali e sicure per raggiungere l'Europa, si moltiplichino».

 

Queste azioni richiedono uno sforzo finanziario considerevole: in questi tempi di crisi, sia economica che umanitaria, avete visto calare il sostegno ricevuto?

«Non è un mistero che in Italia non prendiamo un centesimo di fondi pubblici, appoggiandoci solo su donazioni di privati, aziende e fondazioni. Tutti ci chiedono se questo impegno con i migranti ci allontana i consensi: io rispondo che già 20 anni fa avevamo lanciato lo slogan “Noi aiutiamo anche neri e arabi”. Se non vi sta bene, non sosteneteci, ma non perdiamo la nostra identità per il consenso».


http://chiaraandreola.blogspot.it

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