Mediatori culturali e mediatori mediatici
Da gennaio scorso i giornalisti di NetOne (tra cui quelli di Città Nuova) hanno iniziato un tour assai originale per capire le migrazioni che stanno portando in Europa milioni di persone in pochi mesi. Tappe nei luoghi della crisi: a Budapest, Atene, Varsavia, Costa d’Avorio, Filippine, ora a Pozzallo e Chiaramonte Gulfi, cioè in quel ragusano che più d’ogni altra provincia italiana è impegnata nell’opera di accoglienza e di inserimento degli stranieri provenienti in massima parte dai Paesi africani, e in seconda battuta mediorientali. Questa volta abbiamo incontrato gli immigrati, ovviamente, ma anche quella galassia di operatori d’ogni genere – amministratori, politici, impiegati di Ong, preti… – che si occupa del più grande fenomeno sociale che ha colpito l’Europa in questo inizio di millennio. Un fenomeno che non è più emergenza, ma normalità, che ha cambiato il nostro stesso modo di vivere in società.
A Chiaramonte Gulfi esiste la Cooperativa FoCo – Formazione e comunione che da cinque anni sta lavorando con giovani immigrati e con minori non accompagnati, anche condannati dai nostri tribunali, per un processo di inserimento nel tessuto sociale italiano. Un esempio dell’eccellenza di un’Italia che nel proprio Dna, checché se ne dica, ha l’accoglienza tipica dei popoli mediterranei. A Pozzallo, invece, abbiamo avuto modo di partecipare all’ultima sessione di lavoro, presso il Centro internazionale studi e formazione Giorgio La Pira (originario della cittadina), di una scuola per mediatori culturali, cioè una quarantina di giovani arrivati da queste parti soprattutto coi barconi che oggi si vogliono proporre come “facilitatori” per coloro che arrivano ora.
Incontri di grande interesse, che hanno coinvolto non solo l’emisfero cerebrale del giornalista razionale ma anche quello del giornalista emotivo. Per una convinzione: mai e poi mai si potrà pensare di gestire il fenomeno migratorio con un approccio esclusivamente amministrativo e sociologico. La dimensione umana, personale di ognuno dei migranti che arrivano sulle nostre coste è costitutiva del fenomeno. Chi ha viaggiato quattro mesi a piedi per giungere a noi dall’Afghanistan, o chi ha impegnato quattro anni per arrivare a Pozzallo dal Gambia, per sfuggire al locale dittatore ha un patrimonio umano che non può essere contenuto in un’impronta digitale o in una richiesta di asilo. Servono altre persone che sappiano accoglierne il dolore e la speranza: solo in questo modo l’immigrazione potrà diventare patrimonio per l’intera Italia, per l’intera Europa. Anche dei mediatori, come noi giornalisti siamo, possono essere tra queste persone.