Medea è un uomo che recita una parte femminile
Fa un certo effetto sentire da alcuni degli interpreti della “Medea” di Luca Ronconi – riallestita a distanza di 20 anni dal regista Daniele Salvo -, quelle particolari intonazioni ronconiane che hanno caratterizzato la recitazione di molti attori cresciuti alla sua scuola, interpretazione impostata su toni stranianti che solo lui sapeva dirigere. Ma riascoltarli oggi, senza più la direzione del maestro, sa di artificioso, di meccanico, considerando, inoltre, la recitazione disomogenea degli attori in scena.
Detto questo, l’omaggio che si è inteso fare al grande regista riprendendo un suo lavoro, è operazione di grande valore anche se, legato com’è ad un momento preciso della sua attività artistica e ad un’epoca teatrale, lo spettacolo ci mette nelle condizioni di una lettura e una ricezione diversa che la pur fedele e filologica riproduzione dell’originale, qual è questa di Salvo, non riuscirà mai a restituire pienamente nel sentimento del preciso momento creativo. Perché unica rimane quella storica messinscena catalogabile un po’ fuori dai canoni del raffinato convenzionalismo di Ronconi. Soprattutto per aver immaginato una Medea farneticante e visionaria, interpretata da un uomo, volendo significare del personaggio di Euripide solo un mito, una figura assoluta, feroce e mostruosa, che uccide i suoi figli non per gelosia del marito che l’ha tradita, ma per destino, perché lei stessa ha già tradito altri.
Figura tragica che ha perduto le radici, Medea non è una donna, è il caos, è qualcos’altro. È l’affermazione di una diversità. Diversità di “barbara”, di immigrata, di non cittadina, di donna che obbedisce per istinto o per necessità alla logica maschile della vendetta. La Medea classica racconta la storia di una donna che per amore ha abbandonato la patria, tradito e ucciso il padre e il fratello, e giunta in terra greca con l’uomo amato viene poi abbandonata per un’altra donna, Creusa, la figlia del re di Corinto. Bandita dalla città uccide con un inganno la rivale e il padre, e infine i suoi stessi figli avuti da Giasone per poi ascendere sul carro del dio Sole. Ronconi affidò il ruolo della regina della Colchide ad un attore di razza quale è Franco Branciaroli. Che è ritornato oggi a calarsi nuovamente nei panni di Medea, con quelle sue intonazioni mutevoli, i registri vocali tra il tragico e il grottesco, gravi o strascicati, ironici o taglienti.
Branciaroli indossa una lunga sottoveste nera su una maglia bianca, calza scarpe nere coi tacchi su cui incede incerto. È acconciato da donna spicciola, imita il “femminile” quando finge dolcezza per conquistare benevolenza, ma è una tregua per architettare la mossa successiva, urla progetti terribili per poi riapparire umile. Nel rapporto di fiducia, di consolazione tra lei e le donne del Coro riesce a tirarsele dalla sua parte con simulate lusinghe alla loro femminilità, ed esse la compatiscono, le credono e aderiscono al suo sentirsi vittima del potere maschile. Tranne poi constatare la terribilità delle sue azioni in un finale che le vede in preda a una sonnolenza evitando alla loro umanità l’insostenibile visione. Queste donne sono in abiti casalinghi, affaccendate in lavori domestici con lucidatrice e aspirapolvere in mano, chiacchierano e canticchiano. La scenografia che accoglie l’ambientazione è un interno popolare di quotidianità povera e degradata riconducibile ad un nostro passato recente tra gli anni Quaranta e Sessanta. Domina, lateralmente, una lunga scala a chiocciola che conduce alla reggia e lungo la quale scendono i potenti o i loro emissari, mentre il palcoscenico è disseminato di un cumulo di valigie e bauli – sopra i quali, ad apertura di spettacolo siede la nutrice che intona cantilene etnologiche -, un letto disfatto, e file di sedili da vecchia sala cinematografica sui quali siedono spettatori provvisori, a sottolineare la natura di una rappresentazione vissuta come fascinazione o a riviverla in sogno come incubo.
Inoltre campeggiano tre enormi schermi sui quali scorrono all’inizio distese desertiche e operazioni chirurgiche, e successivamente volti di gente e di luoghi affollati, sovrapposizioni e interferenze che tendono a demitizzare la tragedia. Su uno degli schermi Medea si mostrerà come un’ombra dietro di esso e apparirà con una maschera antica in abito bianco di sposa sulla vasca da bagno spezzata dove giacciono i corpi sanguinolenti del piccoli, seduta su un carro mobile da dove scenderà per subito uscire di scena avanzando in avanti verso la platea tenendo per mano i due figlioletti “vivi”. Si sottrae così alla furia di Giasone che vorrebbe farle pagare il prezzo umano e giuridico dei suoi crimini. A interpretarlo è, come nell’edizione del 1996, Alfonso Veneroso, che, come un ragazzo di vita pasoliniano, indossa una canottiera bianca sotto la giacca scura. C’è poi l’Egeo di Livio Remuzzi, dal candore isterico-favoloso su alti coturni quale citazione della tragedia classica, che promette asilo politico a Medea; e l’ottimo Nunzio di Tommaso Cardarelli – nel ruolo anche di Pedagogo – dai toni furenti e angosciati nella descrizione della morte di Creusa e di Creonte davanti all’imperterrita Medea. Spettacolo da non perdere.
“Medea” di Euripide, regia Luca Ronconi, ripresa da Daniele Salvo, traduzione Umberto Albini, con Alfonso Veneroso, Antonio Zanoletti, Tommaso Cardarelli, Livio Remuzzi, Elena Polic Greco, Elisabetta Scarano, Serena Mattace Raso, Arianna di Stefano, Francesca Mària, Odette Piscitelli, Alessandra Salamida, Raffaele Bisegna, Matteo Bisegna, scene Francesco Calcagnini, riprese da Antonella Conte; costumi Jaques Reynaud ripresi da Gianluca Sbicca; luci Sergio Rossi, riprese da Cesare Agoni. CTB Centro Teatrale Bresciano, Teatro de Gli Incamminati, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. A Roma, Teatro Quirino, fino al 5/11. Quindi in tournée, tra cui Genova, Teatro della Corte dal 14 al 19/11; Agrigento, dal 9 all’11/12; Bologna, Arena del Sole, dal 14 al 17/12; Livorno, Pistoia, Modena, Palermo, per concludersi al Piccolo di Milano dal 13 al 29/3/2018.