Medea ed Edipo, gli stranieri
Nella vasta cavea del teatro greco di Siracusa, il colpo d’occhio cade subito sulla scenografia. Firmata dagli architetti Massimiliano e Doriana Fuksas. Una gigantesca parete argentea, specchiante, deformata. Riflette uomini e natura, e grafie disegnate per terra. Fra queste spicca una M color rosso. L’iniziale di Medea. È la maga della Colchide, la barbara in terra greca, la donna offesa, infine vendicatrice, la protagonista del 45° ciclo di rappresentazioni classiche dell’Inda. Accanto a Edipo a Colono, costituisce il tema che lega quest’anno le due opere proposte: quello dello straniero.
Il regista polacco Krzysztof Zanussi punta ai risvolti psicologici, interiori della donna ferita nella propria femminilità. Forte, passionale, capace di furori violenti, ancestrali. E non a caso Zanussi apre e chiude lo spettacolo con la presenza di un essere animalesco che si arrampica su un albero, quasi a ricondurre quell’istinto barbaro che abita Medea ad uno stadio pre-evolutivo. Che si fa pienamente contemporaneo nel combattimento verbale tra lei e Giasone. La lotta coniugale assume i toni – con qualche eccesso di grida – di dramma domestico nella grande scena che contrappone le due etiche divergenti: la passionalità che rifiuta ogni mediazione, e l’opportunismo cinico di un uomo che vuole solo conquistare il potere.
Protagonista assoluta è una vibrante Elisabetta Pozzi. Quando, per esempio, alza le braccia al cielo in un impeto di rivolta e di dolore, è come se tutta la cavea si riempisse di un’immagine smisurata, dando l’impressione di assistere alla più inammissibile violazione di ogni ritegno o falsità.
Nell’ottimo cast figurano Francesco Biscione (Creonte) e Maurizio Donadoni il cui Giasone, con una efficace immagine, sprofonderà urlando dentro un tombino alla vista della figlia del dio Sole che apparirà dall’alto della scultura in un cerchio dorato con in mano i corpi dei due figli uccisi.
Edipo, lo sventurato migrante resosi cieco, giunge anch’egli in un suolo straniero, che diventa il luogo finale di un angosciato peregrinare. Lì chiede asilo. Tragedia della vecchiaia, Edipo a Colono è il testo della civile accoglienza di Atene per il parricida aspramente colpito dal Fato, e della fosca riconciliazione con gli dei che gli consentono di scegliere il luogo e il momento della propria morte. Ma è anche il testo dell’ambiguo confronto fra le due polis per contendersi il cadavere che secondo gli oracoli darà il potere e la vittoria a chi se lo sarà assicurato.
Considerata una tragedia statica (ma solo apparentemente), il giovane regista Daniele Salvo ne tira fuori la sua dinamica interna. Al punto da lasciarsi prendere la mano dalla facile spettacolarità. Che va pure bene, perché il pubblico ha bisogno di coinvolgimento anche con gli occhi e la musica. L’importante è che prevalga il peso delle parole. E nella tragedia di Sofocle esse sono potenti.
Edipo è l’uomo alla ricerca della verità. Anche al suo autore occorse un lungo cammino per giungere alla propria Colono. Al fondo del suo soffrire Edipo finalmente in pace dà il suo addio: «Vivete, soffrite, ma cercate sempre di capire, di conoscere». Ed è proprio in quel continuo interrogarsi che comincia la dignità di essere uomini.
La regia ci catapulta in un passato archeologico, quasi astrale, interpretando la parete di Fuksas come il monolite del film di Kubrick, 2001, Odissea nello spazio, un luogo radioattivo. Dalla montagna di sale sottostante – il bosco sacro delle Eumenidi – fa uscire dapprima un uomo-scimmia, poi le dee sotterranee e il Coro in maschera da vecchi animato da un forte terrore verso il luogo sacro. Con un’emblematica immagine, l’avvio è dato dall’attraversamento dell’anziano contadino che porta in cima ad un ramo il neonato Edipo da lui allevato. E appoggiato al bastone compare subito dopo Edipo, claudicante e bendato, sorretto dalla figlia Antigone. Da qui l’inizio degli eventi. Tra suoni cupi e folate di sinfonicità, si alternano continui colpi di scena: dall’entrata a cavallo di Teseo, ai guerrieri armati di fiamme, a lampi minacciosi, azzurri e poi rossi che colorano la scena, ai fumi che salgono dalla luminosa botola apertasi ai piedi di Edipo prima del commiato. Grande protagonista è Giorgio Albertazzi, quasi sempre seduto su una roccia. Certe intonazioni, certi accordi vocali dell’ultraottuagenario attore scolpiscono la parola attingendo dalla profondità dei sentimenti. Da segnalare la toccante Antigone di Roberta Baronia, il Teseo di Massimo Nicolini, e il Polinice, figlio rinnegato e maledetto, di Giacinto Palmarini.
Al teatro greco di Siracusa, a sere alterne fino al 21/6.