Quando Medea disse: «Àrmati, mio cuore»

Visita ad Atene, nel teatro dell’Acropoli dove per la prima volta fu rappresentata la tragedia più “moderna” di Euripide
By Frederick Sandys - http://www.utexas.edu/courses/larrymyth/images/medea/AB-Medea-Sandys.jpg, Public Domain, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=1846125

In una visita ad Atene di qualche anno fa ho sfiorato, senza saperlo, il luogo stesso dove i massimi autori greci – Eschilo, Sofocle ed Euripide per la tragedia, Aristofane e Menandro per la commedia – inscenarono le loro opere. Mescolato ai turisti in discesa dall’Acropoli, reso già saturo dalle tante meraviglie viste, avevo fatto poco caso, lungo il percorso, sia agli scarsi resti del santuario di Dioniso Eleutereo, sia a quelli meglio conservati dell’adiacente teatro che, sfruttando il pendio meridionale della rocca, formava col primo un unico complesso destinato a celebrare il dio del vino e della natura.

Peccato, perché questo fu, tra il V e il IV secolo a. C., il primo e più importante teatro del mondo greco (lo stesso termine theatron venne coniato dagli ateniesi proprio per indicare tale edificio); e qui annualmente avevano luogo le Grandi Dionisie, triduo nel quale venivano rappresentate quotidianamente tre tragedie ispirate alla mitologia (più raramente a fatti storici) seguite da un dramma satiresco: quest’ultimo avendo come protagonista lo stesso Dioniso col suo corteggio di satiri e baccanti.

Tali rappresentazioni teatrali si svolsero inizialmente in uno spiazzo circolare adiacente al santuario del dio, dove uomini mascherati da caproni si esibivano in una danza rituale attorno ad un altare, mentre la folla assisteva dalle pendici della collina. Inutile dire che i festeggiamenti in onore di Dioniso erano caratterizzati da notevole consumo di vino e da atteggiamenti trasgressivi.

Anche se altre città greche avevano le loro Dionisie col medesimo abbinamento santuario-teatro, a indicare il carattere inizialmente religioso di queste celebrazioni collettive, non c’era confronto con quelle di Atene che si svolgevano in primavera per garantire anche il maggiore afflusso di stranieri, superate solo dalle Olimpiadi quanto ad assembramento di gente. Esse prevedevano, tra l’altro, la presentazione al pubblico degli orfani di guerra allevati e vestiti a spese dello Stato, come pure dei tributi che le città alleate erano tenute a versare ogni anno alla capitale dell’Attica.

Scenario di tanta storia, oggi il teatro dell’Acropoli si presenta nel suo ultimo rifacimento: con le gradinate in pietra, i seggi destinati agli spettatori più importanti, l’intatta pavimentazione marmorea dell’orchestra (lo spazio circolare destinato al coro) e ciò che resta del palcoscenico. Pare potesse contenere circa 15 mila spettatori. Il primitivo edificio, invece, aveva gradinate in legno ed era probabilmente sprovvisto di palcoscenico: ciò che obbligava gli attori e il coro a interagire nell’orchestra allo stesso livello. Non dovevano tuttavia mancare scenografie dipinte su legno, una pedana rialzata per l’apparizione degli dei e una sorta di gru che permetteva di sollevare da terra gli attori.

Fu proprio in questo embrione di teatro, durante le Grandi Dionisie del 431 a. C. (l’anno stesso in cui iniziava la guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta), che andò in scena per la prima volta la Medea euripidea, inserita in una tetralogia che comprendeva anche le tragedie perdute Filottete e Ditti, e il dramma satiresco I mietitori. Ultimamente l’ho scoperta su youtube nell’edizione televisiva del 1957 con protagonista la grande Sarah Ferrati, che ne curò anche la regia. Che potenza di sentimenti in quest’opera! E come la Ferrati ha saputo scandagliare, cesellare direi in tutte le sfumature possibili, questo personaggio di donna passionale che ha ispirato pittori, scultori, drammaturghi, musicisti e anche registi come Pier Paolo Pasolini e Lars von Trier!

Medea mi è stata riproposta anche da uno stimolante saggio di Gabriella Seveso edito da Ghibli: Àrmati, mio cuore, rappresentazione del femminile quale emerge dalle tragedie classiche, in particolare di Euripide, dove la sposa di Giasone è accomunata ad Alcesti, Ifigenia, Elena, Andromaca, le Baccanti: figure che sembrano racchiudere spinte emancipative e tracce di un’etica tradizionale, stereotipi antichi e nuove rappresentazioni. «Àrmati, mio cuore» sono le parole che Medea pronuncia sulla scena prima di commettere atti sorprendenti, efferati e al tempo stesso coraggiosi.

La trama della tragedia è nota. A Corinto, dove risiede dopo l’impresa degli Argonauti, Medea viene ripudiata da Giasone, che si prepara a nuove nozze con la principessa Glauce, aspirando ai vantaggi di una parentela che gli permetterà di succedere sul trono corinzio al padre di lei Creonte. Sconvolta per l’abbandono e l’ingratitudine dello sposo, che aveva aiutato a conquistare il Vello d’oro con le sue arti magiche, questa figlia della Colchide viene per di più esiliata da Creonte, che la teme. Tuttavia simula arrendevolezza e grazie alla proroga di un giorno accordatole dal re mette in atto il suo piano di vendetta: invia in dono a Glauce vesti preziose che saranno fatali sia alla giovane quando le indosserà, sia al padre giunto in suo aiuto; infine, dopo essere stata a lungo combattuta tra l’ira contro lo sposo e l’amore materno, immola i due teneri figlioletti. Distrutto dal dolore e impedito perfino di seppellirli, Giasone può solo assistere all’ascesa al cielo di Medea con i loro corpi senza vita sul carro inviatole dal Sole.

Con Medea, al tempo stesso assassina e vittima, debole e determinata, divisa tra razionalità e passionalità, amore materno e furia distruttiva, Euripide ha creato uno dei suoi personaggi più potenti e complessi, sul quale esita quasi a dare un giudizio: se infatti da una parte ne deplora la ferocia sanguinaria, dall’altra sembra concedergli delle attenuanti a motivo del tradimento di Giasone, che qui appare non tanto nelle vesti di eroe, quanto di seduttore ipocrita, teso a conseguire una posizione sociale privilegiata per sé e per i propri discendenti. Una frase tuttavia esprimerebbe una sua convinzione: «Qualsiasi mortale sopporti bene le cose che accadono, mi sembra essere il migliore in saggezza».

Ma altro ancora troviamo in Medea: la critica al modello familiare in uso nell’Atene del V secolo, quando la sposa di Giasone lamenta i rischi del matrimonio per la donna, che rispetto all’uomo non ha alcuna voce in capitolo; e poi la contrapposizione culturale tra la più moderna e civile Corinto e la più barbara e arretrata Colchide, patria di lei, straniera e per di più pericolosa in quanto maga.

Cosa ricavare da questo mito così attuale, se si pensa a certe cronache odierne di genitori presi da raptus che uccidono le proprie creature, o alle problematiche attinenti allo scontro tra civiltà? Euripide non dà soluzioni. Lascia allo spettatore riflettere sul senso della vita e sul prezzo da pagare quando si fanno scelte sbagliate. Che è poi lo scopo di tutte le tragedie dell’antica Grecia.

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