Mattia Preti, un calabrese a Napoli

Viaggio alla scoperta della chiesa napoletana di San Pietro a Majella
cavalier calabrese

Se volete gustare le tele di Mattia Preti, il "Cavalier Calabrese", che costituiscono l’attrattiva della chiesa di San Pietro a Majella in Napoli, andateci la sera, prima che finisca la messa vespertina, magari trafelati, dopo un intenso folle bagno nel traffico partenopeo, oppure prima di saltare sul prossimo treno che vi porterà a casa. È un’emozione unica, ve l’assicuro!

 

Se il prete che si sta svestendo dei paramenti sacri consentirà ad accendere le luci del soffitto della navata centrale e del transetto, dapprima un lontano barlume perlaceo, come di alba incipiente, definirà dei contorni (si tratta infatti di un’illuminazione a gas, che mette il suo tempo); poi nel tenue, dilagante chiarore, appariranno man mano un baluginio dorato, macchie confuse di colore, finché l’intero soffitto sfolgorerà trionfalmente come all’apparire di un sole, e in quella fiumana d’oro increspato per i fregi barocchi nuoteranno vivide e sorprendenti le storie di Celestino V e santa Caterina d’Alessandria. A questo punto, tutto avrete dimenticato: il traffico e il viaggio che ancora vi aspetta, la cena che salterete e il sagrestano impaziente; unicamente risucchiati da uno spettacolo che solo a voi, badate, è stato concesso, laddove a quell’ora la più gran parte dei napoletani dovrà accontentarsi di un frusto varietà alla tv.

 

Guardateli gli splendidi riquadri con Le nozze mistiche e la Gloria di santa Caterina. Sono due scene scorciate di sotto in su ammirevoli: la prima nella composizione del gruppo e la seconda nell’irresistibile brio del contorno di angeli che fanno corona al corpo della santa che, nel deliquio del martirio di cui porta evidente il segno, ripropone – unificando scultura e pittura – le soluzioni adottate dai Bernini nell’Estasi di santa Teresa e dal Caravaggio nel Transito della Vergine.

Di una struggente intensità psicologica la Prigionia di santa Caterina assisa su di un cassone di carcere in compagnia di due angeli domestici. Da annotare la delicata amorevolezza con cui uno le ricopre il seno, mentre il suo compagno, poggiandole familiarmente una mano sulle ginocchia, le indica lo Spirito che, come colomba, le porta dal cielo un pane, simbolo e nutrimento per la condizione in cui si trova.

 

Nella navata centrale i cinque riquadri di grande effetto decorativo con scene della vita di san Pier Celestino sono impaginati con un’accentuazione della ricerca scenografica che ce la dice lunga sulla probabile ammirazione di Mattia Preti per il soffitto di San Sebastiano del Veronese a Venezia. Tale ammirazione non deve essere estranea al fatto che il nostro si sia impegnato in maniera così eminente da farne il suo capolavoro.

 

Il tondo centrale raffigurante Celestino V, che, radunati nel giorno 13 di dicembre dell’anno 1294 i signori cardinali, riconsegna il triregno, è quello dove Mattia "cavaliere di grazia" – solitario moschettiere calabrese della pittura del secolo diciassettesimo – manifesta con più evidenza il talento di sintetizzare, unificandoli in vigorosa composizione, i più diversi imprestiti. Comunque una menzione almeno va fatta alla spessa e ruvida stuoia silvestre dove "fra Celestino tentato" giace con le braccia spalancate come quelle del crocefisso che gli fa compagnia, così umano e cosi diverso da quello di ceramica con riflessi maiolicati che lo stesso Celestino si ritrova dinanzi alle mani giunte nella scena della Gloria.

 

Infine, quello che mi è parso una novità di invenzione, un unicum della pittura italiana, è quel paesaggio invernale dove Mattia Preti ambienta la scena dell’Annuncio dell’elezione papale a fra Celestino. La doppia e profonda trincea scavata sulla neve del monte Morrone in un’atmosfera gelida e burrascosa che solo un uomo pratico di montagna quale fu il nostro, nato a Taverna ai piedi della Sila, poteva immaginare; il povero romito con volto ascetico, segnato a dito dai messi che sbucano dietro un albero rinsecchito, mentre un angelo scapigliato e sorridente gli stringe il polso che affiora sotto l’abito monastico; i pochi pani e alcuni melograni posti a conservare su una mensola di neve stagionata, sono tutti spunti che concorrono a fare di questa tela uno tra i paesaggi più belli della pittura italiana della metà del Seicento.

L’ultimo riquadro raffigura, in una complessa intelaiatura di vago ma non tenue sapore emiliano, la visita di san Celestino agli appestati e conclude degnamente quest’opera monumentale, riuscitissima, ma cosi poco conosciuta da farne un gioiello da riscoprire.

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