Matteo Tanganelli: Ho fiducia nella vita

Attore di teatro, è legato all'attrice Veronica Rivolta. Per me, spiega, «fare l’attore è il miglior modo per esperire la vita, la porta attraverso cui vedere il mondo: conoscersi e conoscere tutto».

Matteo ha trent’anni, lo sguardo vivo, la voce armoniosa. È nato a Genova, ma da anni la sua famiglia si è trasferita a Siena. Ora vive a Roma con la fidanzata Veronica Rivolta, anche lei attrice: a vederli insieme formano una bella coppia. Matteo lavora molto in teatro, ed aspetta anche di poter fare cinema.

Da dove comincia il viaggio di Matteo Tanganelli?
Direi da me stesso. Una persona che cerca di essere un uomo libero, anche se so che mi porto ancora dietro tante resistenze. In famiglia – ho un fratello e una sorella – ci siamo voluti sempre molto bene. Ci siamo trasferiti da Genova a Siena ed anche qui abbiamo spesso cambiato casa e, di conseguenza, la scuola per me. Tutto ciò mi ha creato un senso di sospensione, di diffidenza nei rapporti interpersonali e mi sono rifugiato nel mondo dell’immaginazione. Questo è stato un elemento fondamentale nella mia formazione, prima di tutto per poter immaginare di immergermi in qualcosa d’altro, e poi, legato a questo, di interpretarlo, di essere un altro. Era un gioco per me e lo è tuttora. Credo sia essenziale il fatto che quando sei sul palco, se non sei felice – per quanto possa essere tragico il ruolo che devi interpretare –, se non ti diverti, non accade niente. Poi quando nel 2001 ho iniziato il liceo scientifico, è cominciato un amore sfegatato per il cinema. Mentre frequentavo Discipline dello spettacolo all’Università di Siena, ho cominciato un corso triennale presso il Teatro  della Limonaia a Sesto Fiorentino, un piccolo ambiente  di forte impatto culturale,  eredità dell’Intercity Festival che faceva conoscere i registi stranieri. Per non pesare sulla famiglia, facevo di tutto: cameriere, lavoravo in un Internet point, in una ditta di traslochi… Pochi mesi dopo l’inizio dei corsi, ero entrato nella compagnia “Atto Due” composta da insegnanti della scuola, lavorando in produzioni professionali per pagarmi gli studi. Sono riuscito a laurearmi e a diplomarmi nel 2014. È stato un periodo molto più formativo che la scuola stessa. A Firenze ho lavorato con alcune realtà, tra le quali il Teatro Studio  Kripton di Giancarlo Cauteruccio, ma poi ho capito che se volevo davvero fare questo mestiere, dovevo andare da un’altra parte. Varie occasioni, fra cui un corso di alta formazione presso la Link Academy tenuto da Andrea Baracco nel 2015, mi hanno portato  a decidere di trasferirmi con Veronica a Roma.

Sembra allora che sia questa la tua strada. Ma perché vuoi fare l’attore?
L’ho scoperto a posteriori, lo posso dire adesso. Un primo motivo è personale, legato al mio bisogno di conoscenza. Crescendo, ero affascinato da tante cose, ma non ce n’era una a cui io volessi dedicare la mia esistenza. Poi, ho capito che per me fare l’attore era il miglior modo per esperire la vita, la porta attraverso cui vedere il mondo: conoscersi e conoscere tutto. Perciò grazie a questo lavoro ho scoperto tanto di me stesso, ma pure è uno stimolo a entrare ogni volta all’interno di un altro universo. Io amo molto leggere libri che abbiano una qualche connessione col percorso che sto compiendo: per esempio, per prepararmi alle Conversation Pieces di Filiberti ho letto Paradiso perduto di Milton, e ogni volta è un avvicinarsi al libro con una necessità più forte del semplice “devo  sapere quello che c’è scritto”, entrare a capire la dinamica che c’è dietro una storia. Questo per me è emblematico di ciò che è il teatro nella mia vita. L’ho scoperto grazie ad alcune persone che ho incontrato, perché fare teatro ogni volta è calarsi all’interno di un mondo. Se non entri  in comunione con il personaggio e quello che ci sta dietro, non c’è interpretazione, non c’è rappresentazione. Michail Marmarinos, un regista-filosofo greco con cui  ho lavorato a Populonia, in Toscana, nel Progetto Nostoi, mi ha parlato dell’attore come l’”ànghelos”, colui che rende visibile l’invisibile attraverso la sua arte, il suo corpo, i suoi strumenti. Per far sì che ogni volta in scena accada una sorta di miracolo che poi avviene attraverso l’ausilio dello spettatore, anche lui parte attiva.

Quindi  il buon teatro, come anche il buon cinema, ha la possibilità concreta di arrivare alle persone.
Io non lo credevo possibile finchè non ho recitato nel Don Carlos di Filiberti. Dopo lo spettacolo hanno cominciato a scrivermi diverse persone per ringraziarmi dell’esperienza vissuta. Non pensavo che oggi nella nostra società distratta si  riuscisse a creare questo tipo di canale. Viviamo in un mondo in cui tutto è dissacrato. Poter dare una immagine, attraverso quello che si è, di vitalità, di pienezza;  poter in qualche misura esprimersi sentimentalmente, emotivamente all’interno di un mondo immaginario, ma in quel frangente vero, fa sì che le persone per un attimo riescano ad uscire dalla loro vita fatta di problemi, non per intrattenere, ma per far capire che c’è altro, che il mare è molto più profondo di quel che si pensa: ecco, credo che questo sia il compito degli artisti, degli attori. Ricordare ogni volta alle persone che loro valgono molto di più di quello che pensano. Certo, questo “mestiere” presenta  pure degli aspetti problematici perché quello che va a discapito sono i rapporti interpersonali: il teatro è un amante esigente. Io so che sto fra due vite: una fatta di quotidianità e l’altra fatta di un continuo rinnovarsi, modificarsi in una direzione che ti porta verso l’ignoto. Ancora non sono riuscito a trovare il modo di far quadrare i due aspetti, ma spero di trovare una soluzione.

Fra le tante esperienze hai anche quella del mimo…
Mi è capitato di fare il mimo e il figurante  in diverse  produzioni al Teatro dell’Opera di Roma. Grazie ad una coinquilina abbiamo saputo con Veronica che il giovane regista Federico Grazzini stava lavorando al Nabucco di Verdi. Ci siamo presentatati per  le selezioni ed abbiamo scoperto un mondo. In due anni ho partecipato a ben nove opere. Al Dams avevo studiato il melodramma, l’avevo amato, ma quando ho cominciato a farlo dall’interno l’ho sentito più mio. Credo che l’opera si apprezzi meglio riascoltandola in seguito.

I tuo ultimi lavori sono stati con il regista Marco Filiberti. Con lui lavorerai anche al futuro Parsifal?
Mi ci sto preparando. Ho conosciuto Filiberti nel 2016, in un momento di crisi: me ne volevo andare in America, ero stanco di fare teatro  off nelle periferie, ma l’incontro con Marco mi ha dato una carica nuova. Ho lavorato parecchio per interpretare il Don Carlos: lo spettacolo di svolta nella mia carriera, il personaggio che per ora mi rappresenta di  più. Poi c’è stato  il recente Conversation Pieces in cui ero sia Abele che Lucifero, quest’ultimo un ruolo tutto da trovare: non so né come né dove, ma credo che ci siamo riusciti. In questo lavoro ci sono dei momenti particolarmente intensi. Uno che io amo molto è l’ultimo quadro, quando Manfred morente chiede ad Abele: “Dammi la tua mano”. Per comprenderlo, Marco ci ha proposto di pensare al reparto oncologico in un ospedale. Le persone qui non hanno bisogno di Platone o Aristotele, ma di qualcuno che gli dia una carezza, una vicinanza: è il momento in cui si trova l’armonia con tutto, basta l’ultimo secondo di vita per dar senso a tutta una esistenza, è il momento in cui si trova la pacificazione. Allora non è così difficile morire. Come ogni spettacolo anche questo è stato per me uno scambio tra lavoro artistico e vita.

In un altro momento hai definito il lavoro di Filiberti come un messaggio cristologico potente. Che rapporto hai con la fede?
Ho ricevuto una educazione cattolica, come tanti. Da qualche tempo la vado riscoprendo, sebbene non abbia mai del tutto abbandonato la spiritualità. Però nella vita quotidiana è facile perdere la bussola, lasciarla in un angolo finché diventa una cosa ininfluente. A vent’anni ero affascinato dall’Oriente, poi ho capito che quello era un cammino esoterico distante da me e che nell’essenza del cristianesimo potevo trovare lo stesso messaggio, senza sovrastrutture culturali. La figura dell’uomo di fede mi affascina molto ed ha una forte ascendenza su di me. Ho cominciato a riscoprire le Sacre Scritture e le vite dei santi con una sensibilità nuova. Trovo che la capacità di donarsi con generosità ed amore sia fondamentale nel mio lavoro.

Il tuo grande sogno ora è il cinema…
Io sono molto cauto con le esperienze nuove e con il cinema un paio di volte mi sono trovato in difficoltà, vedendo che è un mondo che segue logiche di potere e di fretta. Al contrario io ho bisogno di tempo per esprimermi e quindi ho trovato una grossa barriera. Ma ho capito anche che autoflagellarsi non serve. Il cinema  mi piace e molti mi consigliano di tentare. A Siena con un gruppo di amici giravamo dei corti ed io ero attore o coautore: il primo si intitolava “Il gatto è sul tavolo!”(ride, ndr). Certo, passare da Siena  a Roma non è stato e non è facile. Ma grazie ad alcuni incontri e ad alcune esperienze lentamente si va disfacendo la mia corazza, la paura di vivere, la diffidenza verso le cose nuove. Ho tanti segnali  positivi: sarebbe sciocco non fidarsi della vita. Magari non troverò la felicità eterna, ma un senso di armonia e di serenità sì. Ho capito di dover fidarmi delle infinite possibilità di felicità che la vita mi offre. In fondo, sono un uomo fortunato: non ho mai conosciuto troppo dolore, nemmeno in famiglia. L’importante è non fermarmi, non lasciarmi andare a vivere distrattamente, cercare sempre un approdo.

 

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