Matera, altro cheSassi
Nei volti e nelle storie dei suoi abitanti una vitalità silente e operosa, mai rassegnata.
Matera e i suoi Sassi: un binomio inscindibile. Matera e i suoi tanti volti: un binomio ancora celato. Scavata con geometrica perfezione o in modo rude, quella montagna di tufo è stata nei secoli insediamento militare, luogo di preghiera per i monaci, rifugio misero dei contadini e delle loro famiglie fino alla metà del Novecento. Ora è, per l’Unesco, patrimonio dell’umanità. Mel Gibson, Pier Paolo Pasolini e tanti altri registi hanno voluto imprimere sulla pellicola queste pietre rubate alla Gravina che dai loro pori emanano memoria e spirito, scenografia perfetta per la storia di quell’uomo-Dio indagata dall’occhio della cinepresa e sempre da interrogare.
Poi ci sono le pietre vive, i suoi abitanti, quelli che in quei vicoli tortuosi hanno lasciato la giovinezza o che invece, con giovanile impeto, provano a riportarli in vita inventandosi mestieri e percorsi, aprendo le porte di queste case intrecciate ai visitatori svogliati e ai cercatori di bellezza. Perché i materani sono nascosti, riservati, come del resto lo è la Basilicata agli occhi dei più.
Terra del Sud e che del Sud condivide il destino, anche se «il lucano è un tipo diverso di meridionale», specifica Donato, sguardo burlone, che posandosi sul Sasso Barisano rivanga orgoglio e fierezza. La stessa che ritrovo sulle rughe di Maria, che nulla fa per nascondere quei solchi di memoria impressi sulla pelle. Dicono le storie che comincia a raccontarmi in una lingua dove si fondono Oriente e Meridione. Parole antiche le sue, che stridono con il mio italico domandare, ma che non smettono di sfogliare ricordi.
«Non si può vivere di sola memoria e quelle pietre diventeranno la nostra tomba se non sapremo inventarci il futuro». Sul volto di Saverio c’è l’audacia di chi osa e la generosità di chi non si risparmia: lo dicono anche i chilometri macinati ogni giorno per raggiungere la Fiat di Melfi, dove con gli altri operai condivide la sospensione per un lavoro sempre più precario.
Benedetto, invece, il lavoro lo ha proprio perso: anche lui vittima della chiusura dei salottifici che a Matera avevano stabilito un polo e che come pezzi di domino, uno dopo l’altro, stanno rovinando, sferzati dalla crisi. Nel suo sorriso c’è l’attesa e negli occhi brilla ancora la speranza. Non vuole arrendersi, come è accaduto ad altri suoi colleghi che hanno consegnato la vita alla scure della disoccupazione. I volti si pietrificano quando si parla di loro: è la ferita della città, la taglia in due come il torrente che l’attraversa.
Claudia, invece, la professione se l’è inventata. Tratti delicati i suoi, accoglienti, aperti. Del resto non potrebbe essere da meno per una che ha scelto di gestire con altri sei giovani il Musma, il museo della scultura contemporanea, ricavato in un palazzo che nelle sue stratificazioni racchiude pezzi di storia del territorio. Le sue giornate si dividono tra welcome, bienvenue, benarrivati. Tornata dopo gli studi, è stata accolta dal fatalistico “ti vieni a perdere a Matera”. «Un benvenuto che mi ha raggelata e che poi è diventata la sfida a “perdere” la testa per la mia città». Si sono inventati di tutto dentro quelle mura: progetti didattici per le scuole, esposizioni accattivanti, tour promozionali, visite guidate alla cripta del peccato originale, dove è affrescata la bibbia dei poveri e ora nuovi input, in vista della candidatura di Matera a città della cultura 2019.
«I materani dovrebbero osare di più, spesso si accontentano e non esprimono il loro potenziale». La serietà dell’affermazione di mons. Salvatore Logorio, vescovo della diocesi, è tutta in quel sorriso che porta i segni della sua gente. Famiglie e giovani, le sue priorità. I giovani, novelli emigranti in una regione che in un anno, secondo l’ultimo rapporto Unioncamere, ha perso 5.200 posti di lavoro.
Chi resta però sa sorprendere. Conoscete il parkour? Marco, 22 anni, ne è un esperto. Salta muri, inferriate, ostacoli di qualsiasi tipo come una lepre o uno scavezzacollo, a detta dei più. Occhi scuri vivaci, da cerbiatto, come il suo fisico che esercita nella palestra dove è istruttore e che un giorno sogna di avere tutta per sé. «Chi si avvicina a questo sport pensa sia uno sballo per vincere la noia. Invece è disciplina, richiede allenamento,creatività nel superare le barriere e concentrazione». Decisamente uno che osa. E con lui ci sono anche Antonella, Nunzia, don Gino, Anna, Rosanna, Gianfranco, Lele che hanno osato interrogare per un mese l’intera città con un laboratorio itinerante alla scoperta del bello. Ne è uscito un ritratto del territorio ma soprattutto della gente, che Aurelia ha voluto consegnare alla poesia.
«Gli occhi attenti del vicino, le mani che sostengono, le voci calde e premurose, le parole amiche», il bello è composto di tutti questi doni che hanno riportato alla luce la tradizione del vicinato. «Le case così attaccate l’une alle altre favorivano i rapporti, la solidarietà e una certa curiosità invadente, è vero. Ma possiamo riappropriarci del positivo», conferma l’artista. Un positivo a cui anche Marino, con la sua associazione Città plurale ha contribuito. Se il cementificio non inquinerà più con le sue emissioni, lo si deve alla sua testarda perseveranza, scolpita sulla sua fronte, avvezza alle battaglie e mai alle scorciatoie, anche per il campus universitario che dovrebbe partire a breve.
Una perseveranza semplice è quella di Giuliana che, insieme a don Pier Domenico, porta avanti la mensa dei poveri. Da dieci anni alle 12, chi si trova di passaggio, come i tanti venditori ambulanti, o vive qui, trova una tovaglia linda, fiori freschi, un pranzo completo «a cui aggiungiamo la cena», mi spiega un’altra volontaria.
Quanti volti vivi in questa città. Non tutti hanno trovato spazio in queste pagine, ma certo hanno lasciato un segno. Matera lo lascia. Lo fece con le lacrime di De Gasperi davanti alla povertà dei Sassi, lo lasciò nello scrittore Carlo Levi, che vi dedicò parole e pitture. E continua a lasciarlo a chi osa mettersi in ascolto della sua silente vitalità.
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Rispetto e sopportazione
Franco Stella è presidente della provincia da un anno. Un segnale in controtendenza è stato rinunciare all’auto blu e al telefonino di servizio.
Come mai?
«Sono prestato alla politica, ho una mia attività e non volevo pesare sull’amministrazione in un momento difficile».
Lei è considerato un presidente in viaggio…
«Le istituzioni non possono restare chiuse nel palazzo. Ho inaugurato le giunte itineranti, giro per le varie città e trasferisco l’attenzione nel contesto dove i problemi si manifestano. Così ho fatto per i progetti di recupero dei detenuti, ci siamo trasferiti con tutti gli assessori dentro il carcere. La gente ha bisogno di interloquire, avvicinarsi, partecipare».
E lo fa sul serio?
«Ho lanciato la proposta di un bilancio partecipato che andava varato dopo aver coinvolto associazioni, onlus, società sportive. Nessuno si è tirato indietro. Il bilancio deve rispondere realmente ai bisogni di un territorio con risorse limitate».
Una virtù dei suoi concittadini?
«L’onestà intellettuale, il rispetto e la sopportazione. Purtroppo la voglia di essere protagonisti in questi anni è stata delegata, mentre occorrerebbe farsi sentire di più ed essere più consapevoli del proprio patrimonio».
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Suoni di integrazione
Tolbà è un tamburo berbero ed è anche il progetto di integrazione per immigrati e rifugiati politici che Grazia Cormio porta avanti dal 1992.
Da grafico editoriale a riferimento per gli stranieri, perché?
«Sono stata investita dalle loro storie e non sono riuscita a tirarmi indietro. Abbiamo iniziato con i kossovari, poi i curdi, gli albanesi. Ora ci sono cinesi e africani. Chi arriva qui non lo fa per una gita, lascia un Paese difficile. Io non posso ignorare i bambini non rispettati, le donne violate, chi cerca qui un futuro che gli è stato negato».
Agite su Matera e nei Paesi d’origine…
«Qui gestiamo delle case d’accoglienza e abbiamo aperto 13 sportelli per gli immigrati. Poi pubblichiamo libri multilingue di favole illustrate, il cui ricavato sostiene anche i nostri progetti all’estero. Ad esempio, in Albania avevamo un progetto per talassemici; ora è fermo per mancanza di fondi. Gli stessi che mancano per i nostri stipendi».
Che reazione ha la città?
«Premetto che in Italia mancano politiche sociali e questo non facilita la conoscenza. Da qui gli incontri letterari, le partite di calcio, le mostre, i concerti. Tutto serve a far crollare i pregiudizi. Anche con la comunità cinese, che non è semplice da incontrare».