Massimo Popolizio, o il teatro di parola
Dopo essere stata bistrattata in nome di una ricerca che privilegia, nelle nuove generazioni, e non solo, la performance e la gestualità a effetto, il teatro oggi sembra voler recuperare quella che è sempre stata una propria prerogativa: la parola. È così? E perché?
È vero, sembra che non vada più di moda. Nel mio caso, dato che la mia formazione è quella dell’attore di parola, non è riscoprire qualcosa ma continuare a fare quello che ho sempre fatto. È vero che c’è stato anche un teatro di parola brutto e noioso. Però la parola in quanto tale mi sembra che sia più che mai necessario in questo momento ribadire che ce n’è bisogno. “C’è bisogno del teatro di parola” sono anche le ultime parole che diceva Ronconi nell’allestire Lehman Trilogy (il suo ultimo spettacolo, ndr).
Lei è stato uno degli attori preferiti di Luca Ronconi, col quale ha lavorato a lungo daquando aveva vent'anni. Con lui ha fatto spettacoli memorabili. Si può dire che è stato un “padre”, oltre che un maestro?
È stato il mio imprinting, quello che si riceve da coloro che conosci per primi. Ho iniziato con Ronconi già al mio terzo anno di scuola all’Accademia Silvio D’Amico. Avevo avuto il permesso di lavorare e sono stato sei mesi in tournèe. È stato sì un maestro, ma ci tengo a ribadire che tramite lui ho potuto lavorare con quasi tutti i più grandi attori: da Adriana Asti a Valeria Moriconi, Mariangela Melato, Annamaria Guarnieri, Umberto Orsini, Corrado Pani, Franco Graziosi, Branciaroli, e molti altri. Si può dire che ho avuto un padre di una famiglia numerosa, insieme a tanti altri zii.
Quale è stato l’insegnamento più grande ricevuto?
Che recitare è una cosa molto seria, da non confondere con seriosa; e che occorre farlo anche con una sorta di ironia.
Il rapporto artistico ad un certo punto si è interrotto. È stato per voler tagliare il cordone ombelicale?
Non premeditato. È successo a Torino durante il debutto dello spettacolo Drammi di guerra di Bond dove alla seconda recita ero svenuto. Sono stato male e ho interrotto la mia attività per molto tempo. Sono stati anche quelli gli anni in cui Ronconi ha cominciato ad ammalarsi di reni. Quando ho ripreso, ho lavorato con altri registi e fatto altre esperienze. Ed è stato giusto così. Ma è stato altrettanto giusto ritornare a lavorare insieme. Si doveva fare Petrolio di Pasolini, un progetto a cui pensava da tempo, ma non ci riuscì per problemi di diritti d’autore. Dopo la sua malattia non avevo più lavorato con lui. Il grande ritorno è stato per Lehman Trilogy.
…L’ultimo suo spettacolo prima della morte improvvisa. Cosa ha significato ritornare a lavorare con lui?
È stato un grandissimo regalo. La prima settimana l’ho trascorsa che ero confuso perché non avevo più davanti il Ronconi che avevo lasciato, quello furente, di grandissima energia. Ho trovato un uomo pacato che aveva fatto della sua debolezza un punto di forza. Sempre lucidissimo, e nelle cinque ore che lavorava dava delle indicazioni essenziali. Non muoveva aria, non sprecava energia, andava direttamente al bersaglio in modo molto profondo. Ogni parola che diceva era perfetta. Fra noi c’è stato un attestato di stima reciproco molto commovente.
Lei è l’attore più richiesto per le letture teatrali, quelle più impegnative e spesso imponenti. Lei le chiama, giustamente, “interpretazioni al leggìo”, una recitazione che apre immagini e suoni. Che importanza dà a questo genere?
La lettura dal vivo è complessa ma riguarda sempre il modo di concepire l’interpretazione e il teatro. Chiunque lo faccia deve darle sempre un taglio interpretativo. Per me è molto divertente perché, all’interno di un testo, quando si è liberi perché sei da solo, allora puoi creare i primi e i secondi piani, i campi lunghi, le voci, perchè anche sul versante sonoro ci sono vari piani di ascolto. Sono aspetti imparati da Ronconi. Soltanto da lui ho visto muovere gli attori nello spazio in un certo modo. Erroneamente si pensa che stare più fermo possibile voglia dire più concentrazione. Invece, in palcoscenico, la parola va continuamente mossa lì dove è necessaria, rendendo così più piani di ascolto.
Ha fatto anche cinema e televisione, ma sempre in misura ridotta perché sempre impegnato col teatro. Da un po’ di tempo, invece, il suo volto appare molto sullo schermo. Cosa cambia nel suo approccio?
Quando ero giovane l’attore di teatro non era concepito al cinema, non faceva neanche i provini. Adesso il sistema è molto cambiato. Hanno capito che gli attori di teatro, in una distribuzione globale, sono un valore aggiunto. Io imparo molto dal cinema e dalla televisione. Essendo un modo di lavorare molto veloce, credo che un attore di teatro sul set si pone sempre il problema di quello che sta dicendo. È questo a fare la differenza. Inoltre sia il cinema che la televisione sono antidepressivi per l’attore perchè, mentre il teatro è difficile perché devi ripeterlo sempre per tutte le repliche, il cinema è legato al giorno in cui giri sul set; è all’aria aperta e non è al chiuso; e si fa di giorno. Riuscire a fare un po’ l’uno e un po’ l’altro è, comunque, un grande privilegio.
Attualmente è in scena con Il prezzo di Arthur Miller, del quale è anche regista. Cosa comporta stare fuori dalla scena a dirigere e contemporaneamente dentro a recitare?
Più che regista in questo spettacolo mi sento come direttore di un quartetto. La regia non si può fare stando dentro. Mi sono permesso di farla perché avevo degli attori “piloti” con, come dico io, “parecchie ore di volo alle spalle”. In questo caso è la direzione di recitazione, d’intenzioni, di movimenti legati alle parole, di svincoli, di cambi. È un testo che ha i suoi grandi punti deboli, ma bisogna riconoscere che, a distanza di tanti anni, ha ancora qualcosa da dire, diversamente da molta drammaturgia contemporanea che dopo alcuni anni è già vecchia.
Qual è l’attualità di questo testo, decisamente datato?
Che si parla di soldi, quelli che allontanano i due fratelli protagonisti e che sono all’origine del marcio di una famiglia dovuto al prezzo che ognuno ha pagato per la propria vita. È un tema che non appartiene solo all’America, ma ci riguarda tutti. E tanta gente che vede lo spettacolo si ritrova in quella situazione. Il testo lo abbiamo alleggerito. Annegava in un mare di parole anche difficili. È interessante anche perché è un testo per attori, con una scena fissa concepita come un ring. La sua forza è nell’essere molto violento.
A cosa attinge ogni volta che affronta un nuovo personaggio? Ha un sistema personale di approccio?
Intanto mi documento su più fronti. Ma è leggendo il testo, è dalle parole che cominci a vedere il personaggio, e delinearsi. Lo devo vedere. Non faccio i personaggi portandoli a me, su come sono io, perché il rischio è che ti ripeti, ma cerco di andare, con quello che ho, verso un’altra cosa. Se c’è un aspetto bello nel cosiddetto “teatro d’interpretazione”, è che interpretando cambi sempre.
Una carriera, un’attività praticamente ininterrotta. Da quando ha iniziato all’età di 20 anni fino ad oggi, cinquantenne. Se dovesse fare un bilancio di tutti questi anni a che punto si sente?
Molto spesso mi sento un panda, nel senso di un po’ ingombrante. Mi piacerebbe molto collaborare con qualche regista giovane. Ma quelli giovani spesso si contornano di persone molto accomodanti, di persone della loro età, di amici. Io invece vengo da una scuola dove il palcoscenico è stato sempre una sfida. Sempre per andare oltre, per saltare un’altra asticella.
Può, oggi, il teatro migliorare gli uomini? O almeno aiutarli a cambiare qualcosa?
Penso di sì, perché è un posto dove c’è qualcuno in carne e ossa, un complesso di persone, che cercano di farti vivere un’esperienza. Il teatro dovrebbe essere un’esperienza. Dipende anche dalla generosità degli attori. È chiaro che abbiamo una responsabilità in questo senso, perché quando fai del brutto teatro allontani le persone. L’esperienza del brutto oggi è tanto più forte dell’esperienza del bello. Hai questo senso di responsabilità perché è un lavoro, e lo devi fare bene. Può migliorarci come lo può fare un buon libro, che poi non dimentichi.