Massimo guarda avanti
Per molti, Arzano rimane la città dei ragazzi di Io speriamo che me la cavo. Ricordate? Ma con gli occhi di Massimo questo grosso centro del Napoletano senza particolari attrattive – e alle prese, invece, con pesanti problemi di disoccupazione, delinquenza, spaccio di droga”- in certo modo si trasfigura rivelando bellezze e valori imprevedibili. E ciò grazie al garbo con cui questo giovane arzanese mi mostra scorci di per sé insignificanti ma che trovano un loro posto nella sua storia: ora la pasticceria dove ha lavorato, ora quell’angolo di piazza punto di ritrovo con i suoi amici, e via dicendo. È lui il vero spettacolo per me, più che tutto il resto. Mi dà l’idea di un fiore preservato chissà come in un ambiente ostile. Nato a Napoli, sono sempre vissuto ad Arzano (mia madre è originaria di qui), penultimo di quattro fratelli e una sorella. Quando avevo una diecina d’anni, la ditta di trasporti dove mio padre lavorava è fallita e da una condizione modesta, dove però non ci mancava niente, all’improvviso ci siamo trovati nelle ristrettezze. Da allora, in casa, non ho sperimentato altro che tensioni, preoccupazioni e una cappa di pessimismo perenne. Questo disagio si è tramutato per me in un tale assillo, come per una catastrofe incombente, che neppure nei periodi più favorevoli ho ritrovato la serenità e la scioltezza di una volta. E forse questo è all’origine della mia timidezza, della mia difficoltà a comunicare. Ricordo quando accompagnavo papà da qualcuno che gli aveva promesso un lavoro e rimanevo ad aspettarlo in macchina. Quante volte l’ho visto ritornare sconfitto, scuro in volto! O quando, invitato da un amico ad uscire con lui, non potevo per via delle scarpe rotte e ho pianto di vergogna. A quell’età, era una sciagura che non riuscivo ad accettare. Anche la mancanza di una stanzetta tutta mia, dove poter mettere le cose personali, leggere o trascorrere un’ora tranquilla da solo, contribuiva a farmi sentire svantaggiato. Dopo la licenza media, per portare anch’io qualche soldo a casa e contribuire alle mie necessità, mi sono ingegnato a fare qualche lavoretto, tra cui il pasticciere. Questo primo contatto con la dura realtà del lavoro è servito a farmi prendere coscienza, ancora giovanissimo, dell’importanza di crearmi un futuro, di emergere nella vita. Quasi per una rivincita. Emergere” Certo, in situazioni del genere e per di più quando l’ambiente circostante non aiuta, non è facile. Ci vuole una forza d’animo speciale. Questa forza, Massimo l’ha trovata nella sua amicizia con Gesù, fin da quando, bambino di appena sei anni, era stato investito da un’automobile; amicizia rafforzatasi poi proprio attraverso le difficoltà e le umiliazioni accennate, come pure attraverso gli interventi puntuali della provvidenza… Una sera in cui ero piuttosto giù di morale, sempre per la situazione di casa, ho ascoltato a Radio Maria: Non vi preoccupate di quello che mangerete o berrete o vestirete”. Da allora, grazie a questa frase del vangelo, che considero un po’ la mia Parola di vita, non mi è mai venuta meno la fiducia nell’intervento di Dio. Difatti, anche nei momenti più difficili, a casa un piatto di pasta non è mancato mai. Una volta in cui eravamo in piena emergenza la mamma ha trovato in fondo a un cassetto 100 mila lire che non ricordava di aver messo da parte. Di fatti del genere ne potrei raccontare tanti. Ma il più clamoroso è questo. Papà si era caricato di debiti e non riusciva a venirne fuori. Fra l’altro, quel mese non sapevamo come pagare l’affitto di casa. Mai avevo visto papà e la mamma così disperati. Amici a cui avevo confidato il problema non avevano saputo aiutarmi se non a parole. Mesi prima avevo scoperto Teresa di Lisieux, la cui vita mi aveva colpito molto. Prima però di decidermi a pregare questa santa, ho esitato a lungo: forse per il timore di venire deluso anche da lei” Ormai era il giorno in cui scadeva il pagamento. C’era pure l’estrazione dei numeri del lotto e papà, che insolitamente aveva giocato, ha scoperto di aver vinto con un ambo giusto quelle 700 mila lire che servivano per pagare il padrone di casa. Per me era stata lei, santa Teresina. Non solo, dopo qualche tempo mamma e papà, che si ammazzavano di lavoro per pochi soldi lavorando in una pizzeria fino a tardi, hanno trovato un lavoro migliore presso un albergo alla periferia di Napoli” Massimo l’ho conosciuto durante il Meeting dei giovani a Pompei, il 1° maggio 1995. Mentre Chiara Lubich stava tracciando per gli intervenuti uno stimolante identikit del giovane cristiano, accanto a me s’è venuto a sedere lui, allora diciassettenne. Cadeva una leggera pioggia e l’ho riparato sotto il mio ombrello. Abbiamo scambiato qualche parola (era molto timido), dopo di che ci siamo persi di vista. Qualche tempo dopo, però, ho avuto la lieta sorpresa di ricevere una sua lettera (da Città nuova era risalito al mio indirizzo), con l’invito a proseguire l’amicizia nata quel giorno. Sì, avevo partecipato a quel meeting con un gruppo della mia parrocchia. Una giornata indimenticabile che mi ha riempito di gioia, spazzando via i fardelli che mi portavo dentro. Lì ho avuto modo di conoscere tanti ragazzi come me, ma che credevano in un ideale grande come quello dell’unità” Dopo il meeting ho cercato di contattarne alcuni a Napoli, ho conosciuto i focolarini di lì: mi davano l’idea di persone libere perché amavano. Pian piano anch’io ho preso coraggio e ho cercato di mettere in pratica questo amore, a casa e fuori. Nel luglio ’96, partecipando alla mia prima grande riunione estiva dei Focolari a Roccaraso, ho avvertito in cuore l’immenso amore di Dio per me. E di nuovo, una gioia straripante. In parrocchia, poi, ho scoperto l’importanza e la bellezza di fare un cammino di fede insieme ad altri; ma a motivo dei limiti umani miei e altrui, ho anche sofferto per certe chiusure e meschinità. Passavo quindi dall’entusiasmo ad altri momenti in cui la mia vita mi sembrava vuota: ero deciso a mettere Dio al primo posto, ma lui cosa voleva da me? Fra questi alti e bassi, la spinta ad andare avanti, a mettermi al servizio del prossimo, mi veniva soprattutto dal rapporto personale con Gesù e anche dalle poche vere amicizie. Convinto che anche in situazioni di difficoltà c’è un meglio da far scaturire nell’altro oltre che in sé stesso, cercavo semplicemente di voler bene. Senza pretendere di risolvere certi problemi. Forse proprio per questo mio atteggiamento alcuni amici miei si sono avvicinati a Dio. Quanto a me, seguivo le vicende di Massimo attraverso qualche telefonata. Più spesso ci scambiavamo lettere. Mi colpiva la sua calligrafia, piuttosto caotica e stentata per un giovane della sua età. Mi sembrava lo specchio di quanto viveva. Ed erano le difficoltà di tanti giovani d’oggi, alle prese con la disoccupazione o con un mondo in cui è difficile vivere da cristiani coerenti. Mi raccontava anche delle incomprensioni avute con persone da cui meno se lo sarebbe aspettato, delle sue richieste di aiuto per trovare un lavoro forse interpretate come un pretendere, un appoggiarsi da parte sua. Insomma, la sensazione di essere giudicato, frainteso. Queste prove però non riuscivano ad abbattere Massimo né gli impedivano di vedere il positivo nelle persone. Era una forza che attingeva al rapporto intimo e profondo con Gesù. Se a volte gli veniva da lamentarsi, intuiva però che proprio quelle difficoltà contribuivano a formarlo, ad accrescere la sua ricchezza interiore, immunizzandolo dalle suggestioni che offre certo mondo. Intanto c’era stata la sofferta parentesi di un’esperienza sentimentale con una ragazza, che lo aveva lasciato perplesso, forse con dei rimorsi. Dopo aver alternato periodi di lavoro occasionale ad altri in cui ero a spasso, nel ’99 ho iniziato il servizio civile presso un’associazione di pubblica assistenza a Lioni, un paesino della provincia di Avellino. Andavo a trovare anziani, malati terminali, gente fuori di testa, abbandonata”; accompagnavo a scuola in jeep i figli dei contadini. Lì ho condiviso la sofferenza di tanti poveri, a volte anche il mio pranzo. Ero felice di fare qualcosa per Gesù in loro. E più davo, più ricevevo da quella gente semplice ed umile. Quando sono dovuto partire, è stato un taglio per me come per loro. Successivamente ho fatto le mie prime esperienze come barista e cuoco vicino a Benevento. Guadagnavo, ma era un posto troppo isolato per me. Così, dopo due anni, sono tornato al paese. Di nuovo punto e a capo, mi chiedevo che fare” Me la cavavo in tante cose, ma in niente in particolare. Avevo da parte un po’ di soldi per una causa vinta in seguito all’incidente avuto da piccolo. Così ho deciso di impiegarli per qualificarmi come cuoco e mi sono iscritto ad una scuola alberghiera di Somma Vesuviana dove ho scoperto in me una vera passione per questo lavoro creativo. Dopo di che per un certo periodo ho fatto il cuoco a Giugliano. Ora da due anni sono fidanzato con una brava ragazza, di Casavatore, un paese vicino al mio. Si chiama Simona e fa la maestra” Sembra la volta buona. Anche se un lavoro stabile è ancora di là da venire. Chissà che, mentre questa storia viene pubblicata, la provvidenza non intervenga proprio in questo senso. Massimo lo meriterebbe ed io glielo auguro con tutto il cuore. Intanto lui cerca di guardare avanti, senza badare ai pesi del passato. A proposito, ho notato nelle sue ultime lettere una calligrafia molto più regolare rispetto a quella di una volta. Buon segno, no?