Martha Nussbaum. La concretezza della filosofia
Le questioni etiche non sono solo speculazioni, ma investono economia e politica. Intervista.
In Italia non è un nome conosciutissimo dalla gente, ma per gli addetti ai lavori è una grande: è stata lei nel 1986 la prima a introdurre il concetto di “beni relazionali” – ormai entrato stabilmente in economia – e a influenzare notevolmente, grazie al capability approach (approccio secondo le capacità) elaborato insieme al Nobel per l’economia Amartya Sen, addirittura le Nazioni unite nella messa a punto dell’indice di sviluppo umano.
E no, non è un’economista, ma una filosofa: si tratta della statunitense Martha Nussbaum, docente di diritto ed etica all’università di Chicago, e conosciuta soprattutto per aver introdotto il tema delle emozioni nella riflessione politica e sociale. Proprio le “emozioni pubbliche” sono state il nucleo delle conferenze che l’hanno portata in Italia, prima all’Istituto universitario Sophia di Loppiano (Firenze) il 6 giugno, quindi a Bologna e alla Bicocca di Milano. Gli studenti di Sophia e Città Nuova hanno avuto occasione di incontrarla e rivolgerle alcune domande, a margine della lectio magistralis “Public emotions and the decent society” da lei tenuta per la serie “Le cattedre di Sophia”, edite dalla nostra editrice.
Come è nato il lavoro comune tra economia e filosofia?
«È partito con l’intenzione di sviluppare la base aristotelica del mio pensiero, ma poi è andato oltre. Credo che la collaborazione tra le varie discipline sia fondamentale: a Chicago lavoriamo molto bene con la facoltà di Legge. Come nel caso degli economisti, si tratta di persone interessate a questioni reali, e questo permette di dare concretezza al lavoro. Quello dello sviluppo, in fondo, è un tema etico: che cosa significa migliorare la qualità della vita? Se ci fosse una maggiore consapevolezza di questo, filosofi ed economisti lavorerebbero insieme da molto più tempo. E devo aggiungere che ci sono più filosofi interessati a collaborare con gli economisti che viceversa!».
Lei parla di “emozioni pubbliche”. Tuttavia le emozioni sono per definizione qualcosa di instabile: come è possibile farne la base dell’organizzazione sociale?
«Anche le opinioni e i giudizi sono instabili, eppure non li esuliamo certo dalla vita sociale e politica. Lo slancio emotivo oggi è spesso collegato al populismo, ma non è sempre stato così: è stato ciò che ha reso la gente capace di fare sacrifici, di sentirsi solidali con i propri concittadini. Negli Usa è stato esemplare in questo senso il New Deal di Roosevelt: dopo di lui, nessuno è più riuscito a suscitare una tale solidarietà nazionale».
Lei parla di una “religione civica” come fondamento di questo legame tra cittadini: che cosa intende esattamente?
«Non si tratta di una particolare dottrina religiosa o secolare, anzi, non dovrebbe far riferimento ad alcuna di queste, ma basarsi sul concetto di dignità umana. È fondamentale che non includa nulla che possa dividere e che non assuma un carattere settario, ma raccolga una serie di valori condivisi».
Nel “capability approach” lei sostiene che lo sviluppo economico dipende da alcune capacità personali del singolo: ricchezza e povertà sono quindi presenza o assenza di tali capacità. Da docente universitaria, ritiene che il sistema educativo odierno favorisca il loro sviluppo?
«L’istruzione ha due compiti: fornire queste capacità fondamentali e rendere consapevoli dell’importanza che vengano garantite tutti. E in questo senso, il sistema educativo non sta facendo abbastanza. Negli Stati Uniti abbiamo avuto qualche successo, ma rimane una notevole disuguaglianza in termini di disponibilità di fondi, qualità della didattica e accessibilità tra le varie scuole e atenei. Nessuno finora ha affrontato in maniera efficace questo problema, che determina un forte divario tra ricchi e poveri e una “segregazione” dell’istruzione tra chi può permettersi scuole d’élite e chi no. Manca una percezione del bene comune: la gente non vede il proprio vicino, c’è bisogno di far incontrare le persone. Sono favorevole al servizio civile nazionale obbligatorio, per superare questo egoismo della società americana, ma so che non verrebbe accettato».
Nel caso specifico di Sophia, come vede il tipo di formazione che viene impartito?
«Credo che qui venga data quella formazione interdisciplinare necessaria a formare i “cittadini del mondo”. Se ci si limita a un solo settore del sapere, non si è sufficientemente equipaggiati: e questo è un problema che ancora esiste, soprattutto in Europa. Il mio invito agli studenti è quello di trovare il modo di mettere insieme l’aspetto critico e quello emozionale, qualunque sia il settore di cui si occupano».