Mario un testimone

Mario Rigoni Stern, nume tutelare dell’Altipiano, ci ha lasciati a 86 anni. Le scolaresche che in primavera, di solito, salivano ad Asiago per incontrarlo nella casa-eremo da lui stesso costruita al limitare di un bosco e dove, assieme alla moglie Anna, invecchiava serenamente, non potranno più incantarsi al racconto delle sue favole vere di umanità dolente ma solidale, di piante ed animali. La voce però di questo mite e virile poeta un po’ Tolstoj e un po’ Virgilio risuona nei suoi libri: non moltissimi (Scrivo quando ho qualcosa da dire, soleva affermare) ma sempre indimenticabili, che arrivano al cuore: dal più famoso Il sergente nella neve, che segnò il suo esordio come narratore (poi trasformato in monologo teatrale da Marco Paolini), al capolavoro assoluto Storia di Tönle, all’ultima antologia di racconti La vita dell’Altipiano edita da Einaudi, che ha pubblicato l’intera sua opera. Questi ed altri titoli rispecchiano un’arte del vivere, frutto dell’aver assaporato il mistero e la sacralità dell’esistenza umana come di ogni altra creatura. Era un contemplativo che sapeva vedere perché il suo era uno sguardo innamorato. Per cui anche ciò che è più umile e quotidiano diventava, nei suoi libri, personaggio di cui mostrare la dignità, bellezza, indispensabilità perché concorrente alla vita dell’universo. Quando nel luglio del 1999 andai a trovarlo ad Asiago, si concesse senza fretta, da persona che conosce la ricchezza del momento presente. E schivo com’era, s’assoggettò con pazienza alle mie richieste di fotografo maldestro. In seguito all’uscita di Stagioni, lo intervistai al telefono. A dire il vero, lui non amava questo genere di approccio che non consente di guardarsi negli occhi e, perché no?, di condividere un bicchiere di buon vino. Ed anche perché poi i giornalisti mi fanno dire quello che vogliono loro. Ma l’aveva rassicurato la promessa di fargli leggere il testo prima di pubblicarlo. Ai saluti niente parole superflue, solo l’augurio di una buona primavera . E nell’ultimo biglietto del settembre 2007, quello di un bell’autunno in buona salute. Io sono un narratore che racconta quello che ha visto ed ha vissuto . Così si definiva Mario, assegnandosi dei limiti che sono al tempo stesso il suo pregio. In altre parole, si riteneva un testimone che – senza imporle – aveva da dire cose non di poco conto a chi sapeva accoglierle. Scriveva per i suoi paesani dell’Altipiano, ma poi – scorrendo le traduzioni dei propri libri in giapponese, russo, svedese ed altre lingue straniere – scopriva che i suoi ammiratori erano sparsi un po’ per tutto il globo. Segno di un’arte che esprime valori universali, i sentimenti dell’uomo di sempre a tutte le latitudini. Non amava le astrazioni e i discorsi troppo difficili di chi parla per sé soltanto ed è lontano dalla gente. Lo stesso per quanto riguarda lo scrivere. Se lei – mi disse – prende lo scritto di un letterato raffinato e lo fa leggere a persone comuni come potremmo essere io o lei, sentirà dire: mah, questo non mi convince. Gli fa leggere invece un racconto di Tolstoj o di Cechov, e tutti comprendono. Non a torto riteneva la narrativa la forma più diretta di offrire un messaggio. Da vero montanaro, possedeva la saggezza e la concretezza di chi vive a stretto contatto con la natura e le sue creature. La sua semplicità non era banalità, era essenzialità. Una scrittura limpida, piana, che in realtà era il risultato di un assiduo lavorio per arrivare a farsi capire da tutti. Da vero scrittore della memoria fu una voce contro il silenzio, la dimenticanza. In tarda età, con passione civile, si batté nel modo a lui più consono – attraverso la stampa – per difendere l’uomo e la natura dalle devastazioni del consumismo e da altre insensatezze. Si rammaricava quando, soprattutto in qualche giovane, vedeva disorientamento, mancanza di fiducia nel futuro ed eccessivo condizionamento da parte della tv. Se noi leggiamo la storia ufficiale di grandi avvenimenti come le guerre mondiali che hanno coinvolto, la prima, la mia famiglia, e me la seconda, vediamo come spesso essa non arriva al cuore degli uomini, mentre una cartolina scritta dal fronte da un soldato semianalfabeta ci dice, di quel periodo, qualcosa di più che non la relazione di un capo di stato maggiore: perché le tracce cariche di umanità sono le più profonde. Per lui, scampato ad una guerra e ai campi di concentramento, testimone di altri feroci conflitti contemporanei, nessun dramma era privo di luci di speranza. Non per facile ottimismo, ma perché dalla forza vitale della natura traeva motivo per confidare anche nelle situazioni più disastrate. In fondo – ebbe a dirmi, e s’era appena spenta la guerra del Kosovo – anche laggiù, fra quelle rovine, la primavera fiorirà nuovamente. Se ne è andato in giugno, appena trascorsa quella primavera che considerava la stagione migliore per morire perché è quella della speranza, dove tutto riprende a vivere. Ad Asiago lo scrittore mi disse fra l’altro: Mi capita di ricevere dei manoscritti o dei libri di cui si dice: è un capolavoro. Ma i capolavori nascono, per essere abbondanti, una volta ogni secolo! Di autori che cinquanta-sessant’anni fa sembravano immortali oggi più nessuno parla. Perché, vede, bisogna aver coscienza dei propri limiti. Allora lasciamo al tempo giudicare. Nella sua modestia, Mario Rigoni Stern non si riteneva uno scrittore importante. Ma… lasciamo al tempo giudicare.

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