Mario Luzi senatore a vita
Conobbi Luzi quando mio padre lo intervistò, nella sua casa di Firenze, ormai trentacinque anni fa. Mentre parlavano gli telefonò un francese, evidentemente proponendogli un incontro, un’intervista o qualcosa del genere. Mi sorprese la sua risposta, con voce calda e bassa (anche a causa dell’eterno fumare): Oui, s’il s’agit d’une chose tres familiare. II mio rapporto con la sua poesia dura da allora, ed è appunto molto familiare, perché questo poeta divenuto sempre più grande nel tempo e fin nell’ultima maturità (capita, di regola, il contrario), poeta apparentemente difficile e arduo ma in realtà accoglientissimo, ha sviluppato appunto una tale capacità di dialogo – che comprende anche la familiarità con sé e con gli altri, con il mondo e la vita e la morte – da lasciare a bocca aperta chi ha il coraggio di entrare nelle sue poesie: lo testimonia supremamente (ma, speriamo, non ultimo), il libro che novantenne ha pubblicato or ora con il magnifico titolo Dottrina dell’estremo principiante (Garzanti). Come è giunto Luzi a questo testo sinfonico in cui parlano non solo animali e stagioni, fiumi e ore del giorno, presenze e assenze umane, ma parla lo stesso aldilà di Luzi, il prima e il dopo la sua, speriamo lontana, dipartita? Esiste una probità intellettuale e spirituale senza cui non si diventa grandi scrittori (lasciamo stare lo scriteriato, oggi, dare del grande e persino del maestro a chiunque) e non si scrivono grandi libri, qualunque sia il successo di critica, pubblico o cassetta; e anzi, con tendenza, salvo eccezioni, inversamente proporzionale al successo, Questa grandezza nella probità l’ha intuita il presidente Ciampi nominando Luzi senatore a vita, mentre non ebbero lo stesso coraggio coloro che ad Ungaretti, caso simile e poeta, ai suoi esordi, anche più grande, non diedero né il Nobel – che oggi, se valesse ancora, spetterebbe a Luzi – né il cavalierato. Luzi è della razza di Guido Cavalcanti, come mi disse poi Betocchi con mia condivisione; ha con la poesia (e cioè con la vita che la poesia donnea, scusate il sublime verbo dantesco) un rapporto adamantino e innamorato di fervido amante sempre perduto, e sempre ritrovato, nell’impresa della sua conquista, della sua non traditrice traduzione in parole, del suo riversamento interiore che sia tanto puro da diventare sorgente, per sé e per noi. L’ermetismo, che pure rappresenta una forte identità del giovane Luzi, è stato, considerandolo sulla misura della sua intera parabola poetica (settant’anni a tutt’oggi!), una fortissima spinta di riduzione all’essenziale e di depurazione preventiva del linguaggio della tribù, come aveva consigliato il suo maestro Mallarmé, dal qua Luzi non ha però fortunatamente ereditato l’arroccato intellettualismo e lo smisurato orgoglio verbale. Si è così andata formando, miracolosamente, se parliamo con il senno critico del poi, e soprattutto dopo la degnissima stagione poetica conclusa nella raccolta complessiva Il giusto della vita, un singolare linguaggio alto-colloquiale e magmatico- siderale, riconoscibile nella vicinanza e però levato e fermo come una stella; certamente veicolato anche dallo specifico splendore toscano della lingua, pietra dura e insieme smalto paradisiaco di pittore trecentista. Linguaggio che da Nel magma a quest’ultimo evento poetico prodigioso (grande sottobosco e laboratorio vivo in cui anche il meno importante non è minore ma anzi è fermento e nutrimento assimilato del maggiore) si sfaccetta e si stempera in tutte le forme e sfumature e tarsie e riverberi possibili, e mai esauribili. E sempre in colloquio. Ma in un colloquio così intimo ed esigente da spostare anche l’io, da farne un interlocutore al pari degli altri, di tutte le altre terribili/ splendide meraviglie della creazione (Luzi è poeta cristiano ma non afferrato da appartenenze), pluralità e molteplicità vivente che appare famiglia mormorante-scorrente verso la sua foce, che è poi anche il suo perenne rinascere. E sembra di sentire anche l’eco di un altro grande nella sua tarda, e contemplativa età, Juan Ramon Jimenez, Ma Luzi non ha calchi ed echi letterari, ha convergenze spirituali, che è ben altra cosa e appartiene alla dimensione già pacificata e definita delle verità dal tempo saggiate e filtrate ma del tempo non più – e proprio mentre lo percorrono, lo patiscono, e anche nella lode – tributarie. L’ascolto/ ma si attenua/ quel discorrere di sé con sé del mondo/ in lui interloquiscono/ le specie, gli alberi, gli umani/ con la loro disordinata storia. Si logora/ il sommesso/ voraginoso assenso/ del cosmo alla sua creazione,/ si spegne quella musica?/ o forse a un dato tempo/ l’attenzione del cuore viene meno,/ i sensi si attutiscono, l’amore/ inaugura altre vie di terra/ e cielo per approssimarsi/ al fuoco che lo muta… Si spoglia,/ si libera di sé/ e del suo stigma, rimuove ogni sapere,/ disimpara l’arte/ il sovrumano artista. Lo penetra/ – lo sente -/ il respiro elementare/ della terra che si sveglia,/ lo invade il caldo,/ il tenero, il nascente./ Non chiede altro prodigio/ lui al suo supremo,/ assai oltre il perfetto,/ di là dal mirabile artefatto/ ecco, gli parla, semplice/ come a sé medesima/ la vita il suo inesauribile linguaggio./ Oh premio al duro/ e lungo suo travaglio. Oh privilegio! (Da Dottrina dell’eterno principiante)