Mariam di Nazareth

Forse non c’è nessuna persona – a parte Gesù – dipinta tanto frequentemente quanto la Madonna. Ogni quadro le dà un aspetto concreto, più o meno stilizzato. La Madonna può assumere gli abiti di una regina, l’aspetto di una bellissima giovane bionda nordeuropea, di una donna messicana, africana o dell’Estremo Oriente. Tutti i popoli la sentono vicina. Eppure, le sue radici e la sua vita terrena si collocano in un’epoca e in un ambiente ben preciso, anche limitato. Ella è vissuta per buona parte della sua vita a Nazareth, un piccolo villaggio nel sud della Galilea, villaggio così insignificante che non è mai menzionato nella Bibbia Ebraica o nelle opere dello storico Flavio Giuseppe, che cita invece i nomi di molte località vicine. La vita di Maria per molti versi non sembra si distinguesse da quella di altre donne ebree. Il suo era un nome comune. Ciò si vede già dal Nuovo Testamento, dove sono ben sette le persone chiamate allo stesso modo. Ma non solo. Da uno studio recente su tutte le fonti che coprono l’epoca dal 330 a.C. fino al 200 d.C., risulta che Mariam o Miriam (o Maria) è il nome femminile più diffuso in Palestina, attestato per oltre settanta persone, cioè quasi il 25 per cento delle donne ebree dell’epoca attualmente conosciute per nome, cioè poco più di 300, mentre siamo a conoscenza di oltre 2500 uomini, indizio lampante di ruoli sociali diversi. Non soltanto le fonti letterarie come i testi biblici o storici sono popolate molto più di uomini che di donne, ma anche le stesse iscrizioni tombali, nella stragrande maggioranza dei contesti antichi, menzionano molto più frequentemente uomini che donne. In questo la Giudea e la Galilea non faceva eccezione nel mondo mediterraneo antico. Gli archeologi e gli storici – e gli studiosi del Nuovo Testamento – stanno ancora indagando per capire quel che fa parte di fenomeni più generali e quali erano le condizioni specifiche della donna ebrea. A volte, anche nell’esegesi femminista cristiana, si è fatto l’errore di sottolineare talmente la novità rivoluzionaria di Gesù da vedere nell’ebraismo soltanto gli aspetti negativi di una cultura patriarcale, e quindi oppressiva per le donne. Ma – come nota la studiosa ebrea Susannah Heschel – forse l’idea “più importante promossa dal femminismo è quella di smetterla di attribuire il male all’altro” (1). È impossibile scrivere una biografia storica della Madonna, ma possiamo collocare la vita terrena di Maria in un ambiente abbastanza ben de- terminato. Nei villaggi della Galilea, sembra non esistesse l’idea della famiglia nucleare, con una propria abitazione. Piuttosto, una serie di piccole abitazioni erano spesso costruite attorno a un unico cortile. In tal modo, ogni coppia con i propri figli aveva un minimo di spazio privato, mentre tutto il resto era comune a più famiglie. Quando la donna nel vangelo cerca e ritrova la moneta perduta e chiama le proprie amiche e vicine di casa per celebrare (Lc 15, 9), non deve andare molto lontano per chiamarle. In un tale villaggio, ci si era vicini fisicamente e con il sostegno reciproco. I lavori spesso erano suddivisi, quelli più vicini alla casa tra le donne, mentre i lavori artigianali o dei campi erano affidati di più agli uomini che in molti casi dovevano spostarsi più lontano. Nazareth si trovava a pochi chilometri dalla cittadina di Seffori, centro amministrativo e commerciale della Galilea centrale. Questa città era dotata di un bel teatro romano e di bellissimi mosaici, che forse risalgono ad epoca successiva, ma anche di bagni per l’immersione rituale degli ebrei (Miqva’ot) in molte case. Gli studiosi non concordano su quanto la vita di Nazareth sia stata influenzata dagli usi e dai costumi di Seffori. Una cosa però è certa: la città era non solo centro di governo, ma anche della riscossione delle tasse. Questa sì era una realtà che si faceva sentire pesantemente nella vita di ogni cittadino. All’epoca si paga- vano tasse le imposte a vari livelli: oltre a quelle di vario tipo, dirette e indirette, romane, i sovrani locali (Erode e i suoi successori), esercitavano una notevole pressione fiscale sulla popolazione. In confronto, le tasse per il tempio (un modesto mezzo shekel all’anno – vedi Mt 17, 24-27) e le decime erano meno onerose, seppur non indifferenti. Per molti, a ciò si aggiungeva l’affitto per i terreni coltivati. È chiaro che con ciò non rimaneva molto alle povere famiglie di contadini o artigiani, che spesso dovevano indebitarsi quando il raccolto era compromesso o intervenivano altre calamità. La preghiera del Padre Nostro – “perdonaci i nostri debiti come noi perdoniamo ai nostri debitori” (Mt 6, 12) – può aver avuto un senso molto concreto, anche nella famiglia stessa di Maria. Una spesa notevole era la dote per le figlie. Evidentemente variava a seconda delle possibilità economiche della famiglia. Variava anche l’età in cui le donne si sposavano (2). Generalmente i matrimoni erano basati su accordi tra i genitori degli sposi. Spesso i primi passi verso il matrimonio si facevano appena la ragazza raggiungeva la pubertà o anche prima. Ma in quei pochi casi, in cui conosciamo l’età di donne al tempo delle prime nozze, alcune avevano anche 16, 18, o 21 anni. Nell’ebraismo dell’epoca, ed anche in periodi più recenti, lo sposalizio si svolgeva in due fasi. C’era un primo atto, chiamato qiddushin o “consacrazione”, a volte equiparato impropriamente al fidanzamento. Con ciò si stabiliva un vero matrimonio valido, che poteva essere sciolto solo dalla morte di uno dei coniugi o con formale divorzio, mentre rapporti al di fuori di esso erano già considerati adulterio. Solo a una certa distanza di tempo – spesso dopo un anno – seguiva poi il trasferimento della donna nella casa del marito, con una seconda cerimonia, le nozze vere e proprie, come quelle famose di Cana (Gv 2, 1-11). È assai evidente, e gli studiosi concordano, che Maria e Giuseppe erano già marito e moglie (Mt 1, 16.19.20.24), anche se vivevano ancora separatamente, quando venne concepito Gesù. A dire del noto esegeta Raymond Brown ci sarebbero senz’altro state delle dicerie sul fatto che Gesù era nato troppo presto dopo che i suoi genitori abitassero insieme (3). In tale situazione delicata il sostegno di Giuseppe era particolarmente importante per Maria, perché altrimenti sarebbe stata esposta all’accusa di adulterio. Col fatto che Giuseppe dà il nome a Gesù (Mt 1, 25), lo riconosce pubblicamente e legalmente come figlio proprio. Come nota la teologa Elizabeth Johnson, “fino al sogno di Giuseppe e alla sua generosa risposta, soltanto disgrazia pubblica, infinita vergogna, forse una vita di mendicante, forse anche l’esecuzione si prospettavano davanti (a Maria). Dovremmo permettere che il carattere terrificante della sua situazione entri nuovamente nella immaginazione cristiana, che ha avuto la tendenza di coprire Maria con un’aura di felicità romantica al trovarsi in stato di gravidanza” (4). Se da un lato non possiamo dimenticare le difficoltà che Maria dovette affrontare nella società ebraica del tempo, dall’altro lato non dobbiamo mettere lei – o Gesù – in un indebito contrasto con quella società. Luca, infatti – nonostante non conoscesse bene i particolari delle leggi e delle usanze ebraiche -, sottolinea come Maria e Giuseppe si attengano a tutte le osservanze collegate alla nascita del primogenito maschio (Lc 2, 21-24), ivi incluso il rito di purificazione (della madre quaranta giorni dopo il parto). E continua su questa linea nella storia del pellegrinaggio annuale per la festa della Pasqua (Lc 2, 41). L’obbligo di andare a Gerusalemme in quell’occasione – e per le feste della Pentecoste e delle Capanne – esisteva soltanto per gli uomini adulti (Dt 16, 16). Seppur non sappiamo quante famiglie ebree dalla Galilea o dalla diaspora potevano permettersi di fare quel viaggio, l’afflusso di pellegrini – donne e bambini oltrecché uomini – è attestato non solo dai Vangeli ma anche da Flavio Giuseppe. I vangeli ci offrono soltanto pochi cenni su Maria durante la vita adulta di Gesù. Se il Vangelo di Giovanni la associa a Gesù durante le nozze di Cana e sotto la croce, cioè all’inizio e alla fine della sua vita pubblica, e se gli Atti degli Apostoli ce la mostrano al cuore della prima comunità postpasquale (At 1, 14), ciò non significa che ella lo abbia seguito sempre e dovunque, ed i vangeli sinottici, specialmente Marco (3, 20-21.31-35) sembrano indicare il contrario. Ma è fuori dubbio che a un certo punto lei sia diventata discepola di suo figlio, senza con ciò tagliare i legami con le proprie radici ebraiche. Luca ha voluto esprimere ciò in quello stupendo canto del Magnificat, tessuto dal cantico di Anna (1Sam 2) e da altre parti della Bibbia Ebraica.

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