Maria Voce: la cultura del dialogo come fattore di pace
«Il desiderio che ci anima non è quello di ricordare ma di rileggere insieme, dopo 20 anni, i contenuti e il metodo che Chiara Lubich espose all’Unesco il 17 dicembre 1996 su un obiettivo quanto mai rilevante in questo momento per le relazioni internazionali: l’educazione alla pace. In quell’occasione l’Unesco conferì alla fondatrice del Movimento dei Focolari lo speciale premio pensato per quanti concorrono con la loro opera a creare le vie e le condizioni perché la pace sia qualcosa di reale». Lo ricorda la presidente dei Focolari, Maria Voce, nel suo intervento lo scorso 12 marzo a Castel Gandolfo, nel corso del pomeriggio dedicato a Chiara Lubich e la pace, alla presenza di ambasciatori, esponenti della cultura e del mondo ecumenico.
«Guardando all’oggi quell’episodio sembra essere di grande attualità: cosa c’è di più importante dell’educazione per raggiungere un tale obiettivo? L’attualità dominante, quella che quotidianamente si impone al nostro sguardo, ci offre immagini di una pace violata, spesso derisa. Sembra quasi che, dalla realtà dei singoli fino alla dimensione internazionale, il “vivere in pace” non appartenga alle generazioni del Terzo Millennio.
Eppure, quante volte invochiamo la pace o cerchiamo di riannodare il filo spezzato nei rapporti tra le persone, tra i popoli, tra gli stati? Non possiamo negare che ci riesce più facile erigere barriere, pensando magari che possano difenderci, invece di operare per costruire l’unità nelle relazioni, tra le idee, in politica, nell’economia, tra visioni religiose. E la pace sfugge, si allontana.
«Nella sede dell’Unesco Chiara Lubich offriva un metodo di educazione alla pace: la spiritualità dell’unità, che è uno stile di vita nuovo in grado di superare le divisioni tra le persone, tra le comunità, tra i popoli ed è perciò capace di concorrere a ritrovare o a consolidare la pace.
«Questa spiritualità è vissuta da persone provenienti da esperienze e condizioni diverse: cristiani di varie Chiese, credenti di diverse Religioni e persone di culture differenti. Tutti animati dal desiderio di fare dell’umanità una sola famiglia, coscienti di dover affrontare problemi e situazioni che si presentano quotidianamente ad ogni livello e in ogni campo, tesi ad essere, almeno là dove si trovano – cito Chiara – germi di un popolo nuovo, di un mondo di pace, più solidale soprattutto verso i più piccoli, i più poveri; di un mondo più unito (Discorso di Chiara Lubich all’Unesco, 17.12.1996), in cui sia possibile non solo dirsi fratelli ma esserlo.
«Se questo è il metodo, qual è il “segreto della sua riuscita”? È un segreto che Chiara definisce l’arte di amare, e cioè “che si ami per primi, senza aspettare che l’altro ci ami. Significa saper “farsi uno” con gli altri, cioè far propri i loro pesi, i loro pensieri, le loro sofferenze, le loro gioie. Ma, se questo amore dell’altro è vissuto da più, diventa reciproco” (Ibid.). Reciprocità, parola che tanto peso ha nei rapporti internazionali, ma spesso limitata a garantire la tregua nei conflitti, non a prevenirli o a risolverli.
«Chi ha responsabilità e funzioni rilevanti nella convivenza internazionale sa bene quanto sia difficile la trattativa, quanti ostacoli si incontrino per giungere ad accordi soddisfacenti per tutte le parti. Fare dell’amore uno strumento negoziale rispetto al grande obiettivo della pace servirebbe a sentirsi parte della stessa famiglia, a vivere quella dimensione autentica della fraternità non restringendola solo alla coesistenza o alla forzata coabitazione, ma rendendola aperta alle esigenze dei più deboli, degli ultimi, di quanti sono esclusi dalla dinamica politica o da un’economia che ha come sola legge il profitto.
«Amare, dunque, è operare per l’altro econ l’altro; è concorrere a superare le barriere poste da interessi contrapposti, dal desiderio di manifestare la potenza, dall’ineguaglianza nei livelli di sviluppo, dal mancato accesso al mercato o alla tecnologia.
«Nel parlare di educazione alla pace ci troviamo di fronte alla grande sfida di coniugare un metodo, quello dell’unità frutto dell’amore reciproco, con la frammentazione che avvolge ormai tutti gli ambiti della nostra quotidianità.
«Chiara Lubich ne aveva coscienza e per questo offrì ai Rappresentanti degli Stati membri dell’Unesco quasi una chiave di volta, una buona pratica secondo il linguaggio in uso nelle relazioni internazionali. Disse infatti: “Non si fa nulla di buono, di utile, di fecondo al mondo senza conoscere, senza sapere accettare la fatica, la sofferenza, in una parola senza la croce” (Ibid.). L’impegno per la pace è difficile da realizzare se non si è pronti a perdere certezze e comodità, avventurandosi verso strade nuove, inesplorate; diventando creativi senza improvvisare; ascoltando la voce di quanti domandano un futuro di pace e individuando dove emergono le possibilità per attuarlo. […]
«Vent’anni or sono, Chiara all’Unesco indicò nell’amore “la più potente arma per donare all’umanità la sua più alta dignità: quella di sentirsi non tanto un insieme di popoli l’uno accanto all’altro, spesso in lotta tra loro, ma un solo popolo” (Ibid.).
«Anche oggi, pur di fronte a difficoltà molteplici e ricorrenti, è questo l’ideale che vogliamo realizzare con l’apporto di tutti».