Maria e le Trentatré
Dite “Incurabili”, a Napoli, e tutti vi sapranno indicare questo complesso ubicato sul sito dell’acropoli della città greco-romana. Risultato da acquisizioni susseguitesi nel tempo, comprende l’ospedale di Santa Maria del Popolo, tre chiese, due chiostri, un “orto medico” e un oratorio, già sede di una confraternita dedita all’assistenza e al conforto dei condannati a morte e delle loro famiglie.
Ricca di tesori d’arte a partire dal Rinascimento, questa cittadella nel cuore del centro storico attesta – unico esempio al mondo – la continuità di un’attività caritativa e assistenziale cinque volte secolare. Primo presidio ospedaliero del vicereame, dove erano favoriti gli studenti poveri e meritevoli e con una prestigiosa scuola di ostetricia, arrivò ad essere nel XVII secolo una delle eccellenze sanitarie d’Europa e vide avvicendarsi illustri esponenti della “Scuola medica napoletana”. Noto anche come l’”Ospedale dei santi”, nelle sue corsie prestarono la loro opera figure come Luigi Gonzaga, Gaetano da Thiene, Alfonso Maria de’ Liguori, Andrea Avellino, Giovanna Antida Thouret, Camillo de Lellis, Francesco Caracciolo, Ludovico da Casoria, Bartolo Longo e Giuseppe Moscati.
Dopo il tributo pagato alle bombe dell’ultima guerra, da decenni, purtroppo, gli edifici monumentali erano abbandonati all’incuria e interdetti al pubblico, rimanendo accessibili solo il Museo delle arti sanitarie e l’antica farmacia con i suoi straordinari arredi d’epoca. L’ultimo crollo del 2019 ha finalmente avviato – con lo stanziamento dei fondi necessari – l’era della rinascita di un così vasto e vario complesso. Il progetto prevede una destinazione mista: ospedaliera (su una superficie pari al 60 per cento di quella complessiva) e museale/culturale (pari al restante 40 per cento). La rinata struttura socio-sanitaria accoglierà, fra l’altro, persone mancanti di cure e assistenza adeguate, recuperando in tal modo la mission originaria. Quanto agli edifici storici, una volta restaurati verranno adibiti a spazi espositivi, biblioteca, laboratori e sale per attività didattiche e divulgative, convegni e concerti.
Al nome “Incurabili” va subito associato quello della fondatrice, una nobildonna originaria di Lerida in Catalogna: Maria Requenses, giunta a Napoli nel 1506 al seguito del marito Joan Llonc, funzionario di Ferdinando II d’Aragona. Rimasta vedova con tre figli, nel 1510 la Llonc (italianizzata in Longo) si recò pellegrina al santuario mariano di Loreto, dove ottenne la grazia della guarigione da una grave forma di paralisi.
Di nuovo a Napoli, entrò nel Terz’ordine francescano col nome di Maria Lorenza e per assolvere un voto fatto a Loreto iniziò a prestare servizio nell’ospedale di San Nicola al Molo presso Castelnuovo (il Maschio Angioino), ma incalzata dai sempre più numerosi infermi progettò di fondarne uno con le proprie risorse e il sostegno di potenti amici: quell’ospedale detto “degli Incurabili” dai malati rifiutati dagli altri ospedali perché indigenti o affetti da sifilide, patologia all’epoca non curabile. A partire dal 1519 la Longo ne sarebbe stata la reggente con l’animo di una madre per dieci difficili anni, tra guerre e pestilenze. Nel 1526, accanto al complesso ospedaliero accolse anche alcune prostitute che, guarite dalla sifilide, si erano convertite: il seme del futuro monastero “delle Pentite” sotto la guida della duchessa di Termoli, Maria Ayerbo.
Nel 1533, ispirata dal fondatore dei chierici regolari teatini Gaetano da Thiene, maturò l’idea di abbandonare la reggenza dell’ospedale per fondare un monastero di vita contemplativa. Laborioso fu il percorso, concluso nel febbraio 1535 con l’approvazione papale della nuova fondazione, sottoposta alla prima Regola di santa Chiara (quella del 1259, la più rigida), dove per la prima volta venivano ammesse suore senza dote.
Prima sede del nuovo monastero furono alcuni locali annessi al Santa Maria del Popolo. Nel 1536 l’allora pontefice Paolo III concesse alla fondatrice di non superare per le monache il numero di trentatré, gli anni della vita terrena di Gesù.
Tre anni dopo le religiose traslocarono nella chiesa di Santa Maria della Stalletta, fatta costruire dalla Longo per ospitare i primi teatini arrivati nella capitale del viceregno e poi trasformata nel protomonastero di Santa Maria in Gerusalemme. Per esse il papa confermò la stretta clausura, ma adattata alla situazione monastica del ‘500 in una città come Napoli: norme con le quali le Clarisse Cappuccine (questo il loro nome) si sarebbero rapidamente diffuse in Europa e nel resto del mondo.
Ormai provata nella salute, nel 1539 Maria Longo rinunciò alla sua carica di abbadessa e morì nell’ottobre dello stesso anno. In un manoscritto del 1588 si legge: «Et poco avanti lo spirare, voltatasi alle sorelle, disse loro: Sorelle, a voi pare che io habbia fatte gran cose di buone opere; ma io in niente di me stessa confido, ma tutta nel Signore. Et mostrando la punta del dito piccolo disse: Tantillo di fe mi ha salvata. Et questo disse con gran giocondità et con bellissima faccia. Tenne sempre il crocifisso in mano. Et poco dopo le dette parole, baciandolo, disse tre volte: Giesù. Et spirò».
L’attuale sede delle “Trentatré”, la terza, va cercata nei vicoletti lungo il Decumano Superiore, accanto alla chiesa barocca progettata da Giovan Giacomo Conforto; fra mura e arredi che dicono semplicità, povertà e umiltà, scorre la vita di fraternità e preghiera di tredici sorelle. Spiccano, tra i lavori artigianali con i quali esse provvedono al proprio sostentamento, i Bambinelli di cera approntati per il periodo natalizio.
A queste religiose di clausura tutt’altro che estranee al mondo, un permesso speciale ha concesso di comunicare con l’esterno, oltre che con la tradizionale ruota e il telefono, tramite Facebook per inviare i loro messaggi di fede e di speranza.
E la venerabile Maria Lorenza Longo? Pur essendo sempre stata viva la sua fama di santità, solo nell’ottobre scorso la Congregazione delle Cause dei Santi ha riconosciuto le sue virtù eroiche. L’ormai prossima beatificazione del 9 ottobre proporrà ai cristiani di oggi un modello di donna sposata con figli, laica consacrata ed infine monaca che ha saputo coniugare sia l’ascolto attento del grido degli ultimi – poveri, prostitute, malati terminali – sia la tensione contemplativa a Dio.