Mare maestro
Con una piccola ciurma di amici o in solitario, navigare per mare è la più limpida e pura forma di compiere un viaggio. E non fatene una questione di lunghezza dell’imbarcazione e nemmeno di durata del viaggio, è piuttosto una faccenda d’anima. Prepararsi con cura, conoscere lo scafo e l’equipaggio, salpare, transitare in acque sconosciute, affrontare nuove rotte e – finalmente – approdare: nessun elemento è assente, ogni passo è denso di significato. Ma la condizione perché il viaggio sia vero e il mare ti parli, è guardarlo diritto negli occhi, affrontarlo con lealtà, ad armi pari. E allora, non sai nemmeno perché e per come e non ricordi quando, il mare diventa un amico, o un fratello maggiore. Misteriosamente il mare comincia a parlarti: interroga, crea pensieri, è esigente, insegna, sfida, purifica, ridimensiona, cura, lenisce, guarisce. Un grande inaspettato maestro.Salpare Salpare, e perciò affrontare una nuova navigazione, implica – anche se in sedicesimo – una precisa operazione culturale. Perché altrimenti quel brivido, quella malcelata eccitazione, quella gioia ineffabile che accompagna ogni partenza, contagia l’equipaggio e crea un vago timore nel cuore dei non iniziati? Lasciare l’ormeggio esige di abbandonare la fissità e la certezza dei sicuri riferimenti terrestri per affrontare la fluidità, la non stabilità. Ci si abbandona alle leggi del vento e delle correnti. Si valica un impalpabile confine e si entra nel grande regno del mare, accettandone la signoria e le leggi. Che possono essere durissime, come nel caso della navigazione con cattivo tempo. L’idea di navigare con tempo duro potrà anche affascinare i neofiti, ma non piace affatto ai marinai di professione e tanto meno a noi, che per mare andiamo per diporto: basta averlo solo assaggiato, il mare grosso, per averne rispetto e temerne l’incertezza, le insidie, i rischi. Una banalità come la perdita del timone o il rovesciamento del kajak possono essere l’inizio di una tragedia se il tempo è inclemente. Insomma la cosa più saggia sarebbe quella di evitare di navigare col cattivo tempo, prevederlo, e comunque prepararsi ad affrontarlo ben attrezzati, stagnando noi stessi e lo scafo. Quando si incappa nel tempo avverso, e ci si trova in un mare troppo grosso per noi e per la nostra imbarcazione, si deve cercare la strategia migliore per affrontarlo: se a vela mettersi alla cappa ad esempio, e poveri o privi di velatura ridurre velocità e impatto con le onde. E non è certo vergogna l’alternativa del fuggire la burrasca. O guadagnare un ridosso, o far rotta verso il porto più vicino. Crea un certo imbarazzo, è vero, tornare a terra a rimorchio di un’altra imbarcazione o aver dovuto abbandonare lo scafo su cui si navigava: ci si sente come tartarughe senza il guscio! Ma così può capitare in mare, come del resto nella vita. Piuttosto, quandosi ringrazia di essere ancora vivi dopo piccoli e grandi naufragi, ci si accorge di essere stati incoscienti allievi alla scuola di umiltà del mare, che insegna a sbagliare con dignità e a riconoscere i propri errori, a prendere meglio le misure della navigazione, a fidarsi di più della altrui esperienza e – sopra ogni altra cosa – a ricominciare. A ricominciare sempre. Per tutto questo, ogni volta che si affronta il mare è una partenza vera, e – se non ci si trascina dietro ogni sorta di mezzo di comunicazione che ci può legare alla terraferma, tranne quelli previsti dalla sicurezza – si potrà ancora oggi assaporare un distacco reale. Al di là di quel confine, possiamo anche noi sperimentare le condizioni dei quei primi navigatori che nelle navigazioni costiere – le uniche possibili con scafi primitivi e incapaci dirisalire il vento – non disdegnavano certo i favori di dee benigne e ne onoravano i simulacri nei templi eretti vicino al mare per contrastare l’ira di Poseidone. E perché quei misteriosi occhi dipinti sulle prore delle navi antiche, spesso presenti ancora oggi ad ogni latitudine sulle barche dei pescatori? E quale il senso delle coloratissime polene sospese sotto i bompressi dei galeoni se non quello di scrutare i mari, di suggerire le giuste rotte, di fugare i timori della ciurma? Le polene, statue di prua, erano l’anima audace, dolce e fiera dei marinai. Partire… Immaginiamo l’epopea dei migranti verso le Americhe: quelle partenze per lunghe rotte al di là dell’oceano erano eventi reali di separazione, distacchi dalla propria matrice, perdita di tutti qui legami che fanno una persona. Ma se erano partenze che sapevano di abbandono e di dolore, si creavano in quei distacchi maturati per un disperato coraggio, le premesse di nuovi orizzonti e nuova identità. Forse abbiamo perso il significato vero del partire, il coraggio cioè di divenire noi – in modo definitivo e compiuto – parte lasciando il tutto che ci appartiene per rischiare a rinascere nuovi in qualche altro luogo. Senza vere partenze non c’è nemmeno vero transito, non più arrivi, non più approdi, non autentiche novità. Il distacco è maturazione. Salpare può aiutarci a comprenderlo. Approdare Anche il ritorno a terra ha un sapore unico e diverso dal ritorno a casa via terra. Giungere dal mare in un porto produce una emozione particolare. Si arriva, si ormeggia, con gesti lenti si cammina sulla banchina con gambe malferme, talvolta non si sa nemmeno il nome del porto o dell’isoletta dove si è arrivati… eppure ci si sente signori! Si cerca la prima bettola per bere, ma soprattutto per prendere in qualche modo possesso di quella terra. Ed è particolare anche la percezione di chi – a terra – vede qualcuno arrivare dal mare: lo vede proveniente da un mondo affascinante ma estraneo. Forse perché da sempre è dal mare che giunge la diversità, l’alterità, il non conosciuto? Solo i bambini sembrano non farci caso, fremono per la novità del nostro arrivo – forse perché ancora sono nuovi loro stessi? – e ci vengono incontro allegri e curiosi, senza alcuna paura…E perché mai quel sentimento struggente che si produce in chi arriva, miscuglio di sollievo – magari dopo navigazioni dure – ma anche sensazione di paradiso perduto? Forse per quella situazione di eterno presente, di infinitezza, di felicissimo respirare da cui si proviene? Forse che il navigare ci aveva ammaliato e ora le prosaiche leggi terrestri tornano a spaventarci? L’approdo contiene la navigazione fatta e la compie, chiude il cerchio che aveva avuto nel salpare la sua origine, anche se non sazia la voglia di ripartire ancora. La conoscevamo la nostra costa, la terra, l’erba, la gente, gli odori, le strade, la città: ma ora tutto appare nuovo. Lavato dal navigare, nitido di luce e di mare, asciugato dal sale. A-rivare, giungere alla riva, è parola sacra, fiorita per la prima volta sulla bocca di un navigante. NAVIGAZIONI Ogni giorno occorre preparare con cura il necessario, controllare le giunture, gli attacchi, i nodi e gli intrecci… Ogni giorno il corpo si riabitua alla fatica ed il dolore lieve è un liquore che si beve col cuore quieto. Ogni giorno, con la regolarità dell’imprevisto, il vento va riconosciuto e salutato e occorre immaginare assieme a lui i nostri percorsi. Ogni giorno il mare ributta le sue meduse, le sue alghe strappate dai temporali e i resti dei naufragi tornano a galla…. Così come ogni sera il vento stracca e con la calma di un piccolo porto torniamo a casa con una dolce tristezza piovuta in cuore da chissà dove… Ogni nuovo giorno l’attenzione prepara l’attitudine al cambiamento, la possibilità d’ogni incontro, serissima spensieratezza e quasi senza sforzo si entra nel mistero e nella meraviglia: falesie bianche di vento, grotte di luce, fondali d’ombra e ristoro… Finché un golfo ci accoglie, antichissimo come il tempo, in questo suo nuovo, sconosciuto, ritrovamento. PORTIMAO Ci entro controvento/ in un pomeriggio di sole/ e s’apre al passare/ un porto orizzontale/ placido eppur frizzante/ di campane pescatori e sabbia./ Il vento di terra/ scorre sulle cose e le leviga,/ le lucida per l’occasione,/ per un pomeriggio nuovo,/ per la memoria bambina/ pel gioco della poesia/ che altro non sa fare:/ è arte della memoria/ ma non se ne fa imprigionare.