Marco Tecilla e la scoperta di Dio Amore
Marco Tecilla, fratello di Maria, fu il primo focolarino: «Mia sorella, di quando in quando, chiedeva a mia madre qualche capo di vestiario che giudicava superfluo per portarlo a “certe” amiche. Data la nostra precaria situa-zione economica ciò procurava in mia madre e in me un certo stupore. Eravamo noi i poveri! Questa “esagerata” generosità e le continue uscite di casa avevano creato in famiglia una certa tensione. […] “Cristiani sì, ma non esageriamo!”…
Più tardi venni a sapere che il gruppo frequentato da Maria era composto da ragazze che avevano dato anima e corpo per “una certa causa”. Io le consideravo esaltate e bigotte. Naturalmente questo mio modo di giudicare non aveva alcun fondamento poiché di esse poco o nulla conoscevo».
Finita la guerra, la famiglia Tecilla, sfollata in montagna, ritornò in città. Si rimise a posto la casa piena di calcinacci. L’ambiente dell’officina dove Marco lavorava non era sereno. Risentiva sia della ritrovata libertà sia di un odio contro la religione e le istituzioni. Marco sentì il bisogno di parlarne con qualcuno. Riprese i contatti con padre Casimiro che lo invitò ad un incontro che si sarebbe tenuto il sabato successivo in Sala Massaia, alle 14.30. Con Marco erano stati invitati altri sei-sette giovanotti. Era il dicembre del 1945.
«Mi sentii preso in contropiede: riconobbi in quelle ragazze le amiche di mia sorella, quelle amiche che io tanto detestavo. Colei che parlava era l’animatrice del gruppo: Chiara Lubich.
Il mio primo istinto fu quello di andarmene, ma – sempre a causa della timidezza e per una certa educazione – rimasi al mio posto.
La signorina parlava di Dio con un fervore e una convinzione che non lasciavano dubbi. Sono stato sempre cristiano ma non avevo mai sentito parlare di un Dio così vicino, così amore, così padre. Ero come una spugna secca che finalmente beve. E quando i miei compagni alla fine dell’incontro incominciarono a discutere su questa unità, fu come un brutto risveglio. Loro erano più istruiti di me, alcuni laureati, io ero un semplice operaio, ma quelle cose mi erano scese così profonde nel cuore, che mi pareva che essi ora sciupassero tutto».
Marco venne a sapere che quelle ragazze alla fine del mese non avevano un soldo. Forse lui, che sapeva fare di tutto, avrebbe potuto essere utile. L’occasione fu un fornello elettrico a cui cambiare la resistenza. E quei momenti passati alla casetta divennero frequenti, tutte le volte che c’era qualcosa da riparare.
«Una sera sono stato lì più del solito: saltavano fuori sempre nuovi lavori, l’impianto era vecchio e non resisteva a fornellini e stufette. Quella sera Chiara mi invitò a sedere un poco. Mi misi al lato opposto della tavola, dove lei con l’ago e il filo in mano aggiustava qualcosa. La guardavo un po’ dal basso in alto: lei era maestra, studiava filosofia all’università, io non ero che un operaio e poi, dopo quella volta che l’avevo sentita parlare…
Mi parlò di Gesù, di quel Gesù in cui io credevo, ma che avevo sentito sempre molto lontano pur ritenendomi un fervente cristiano.
Ricordo l’esempio che mi portò: “Coloro che fanno teatro” –mi disse–“imparano la loro parte e quando viene il momento di debuttare si truccano, si immedesimano in un determinato personaggio e recitano il loro ruolo. Terminata però la commedia si tolgono il trucco e ritornano ad essere quelli di sempre. Così –proseguì Chiara – fanno molti cristiani: viene la domenica, mettono, per così dire, il trucco da cristiano, vanno alla Messa e poi, ritornati a casa, depongono il trucco da cristiano”. Ascoltavo attento quelle parole che scendevano profondamente nella mia anima portandovi una vera rivoluzione. In quell’esempio mi ci vedevo perfettamente.
“Gesù – continuò Chiara – se venisse oggi in questo XX secolo sarebbe Gesù 24 ore su 24: Gesù che lavora, che prega, che mangia, che riposa… ma sempre Gesù. Forse–disse–oggi sarebbe un Gesù elettrotecnico, come te…”.
[…] Questa nuova visione cristiana mi stordì. Vidi il mio passato – che avevo sempre ritenuto buono – crollare davanti a me come un edificio colpito dalle bombe e provai una certa angoscia. Nel contempo vedevo aprirsi davanti a me un orizzonte nuovo, pieno di luce. Ce l’avrei fatta?».
Poi Marco partì per il servizio militare. Ma non fu solo. Le ragazze da Trento, a turno, scrivevano ogni giorno una lettera. Marco era sempre al corrente di quanto accadeva.
Alla fine di settembre del 1948, con una licenza di tre mesi per malattia, Marco tornò dalla caserma della Cecchignola (Roma). Si incontrò subito con Chiara che lo invitò, per la sera, nella casa della famiglia Agostini.
La sera, in via Antonio da Trento 13, con Chiara c’erano una delle sue compagne e Livio, un giovane terziario francescano che si era unito per breve tempo al gruppo delle ragazze, vedendovi soltanto un rinnovamento del francescanesimo. A un certo punto, Chiara si rivolse alla padrona di casa: «Mammina, possiamo vedere la stanza? Che bello, sai, qui nasce il primo focolare maschile!».
«Mi sentii lontano – racconta Marco –. Tante cose si facevano e io non c’ero. Fu un vero dolore. Mi venne da pensare che avevo perso tempo ed ero andato indietro nella vita dell’Ideale. Chi avrebbe composto il nascente focolare? Anche perché io sarei dovuto tornare in caserma dopo tre mesi. Mi sentii escluso. In quel momento, nello spazio di un lampo, mi sono ricordato di una domanda che un giorno Chiara mi aveva posto davanti alla casetta: “Marco, tu hai scelto questa strada, però sei solo, non abbiamo approvazioni, domani che farai?”. E le avevo risposto: “Ho scelto Gesù Abbandonato!”.
In quell’istante Chiara si rivolge verso di me: “Allora, Marchetto, domani, se vuoi, puoi già venire qui!”».
da Abbiamo creduto all’amore, di Tanino Minuta (Città Nuova, 2013)