Marco Cavallo, il papa e la bussola da ritrovare
Non è un caso che, nella prima settimana di luglio e come qualificante segno di una Chiesa in uscita, la 50a edizione delle Settimane cattolici dei cattolici in Italia si sia tenuta in una città laica come Trieste. Terra di frontiera e di sofferti confini, principale porta della Rotta balcanica, cerniera con Nord ed Est Europa, al medesimo tempo porto di mare, crocevia di popoli e culture, e storico laboratorio di convivenza di differenze religiose e culturali.
Così come non è un caso che quelle giornate abbiano posto al centro dell’attenzione dialoghi, confronti e buone pratiche sulla democrazia, oggi particolarmente sofferente a causa della crisi di partecipazione e di una società sempre più polarizzata.
Eppure, come ha affermato il presidente Mattarella, «al cuore della democrazia ci sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni, della loro umanità».
E proprio per questo – afferma il presidente della CEI, card. Zuppi, anche alla luce della preoccupante crescita della povertà assoluta (un italiano su dieci) – la democrazia necessita di divenire «migliore e più inclusiva».
Certo, c’è la crisi del “noi”, la paura dell’altro e l’individualismo esasperato che si nutre del consumismo e genera l’indifferenza, vero “cancro della democrazia” – come l’ha definita il Papa –; ma allo stesso tempo c’è un variopinto mondo che, non senza fatica e spesso sotto traccia, continua a credere nella partecipazione “attiva” e “creativa” secondo i principi di sussidiarietà e solidarietà, e opera in contrasto alla cultura dello scarto, offrendo tempo, energie, risorse, amicizia e condivisione.
Lo sapevamo, ma dovevamo vederlo con i nostri occhi e sentirlo narrare dalla concretezza di centinaia di esperienze che da tutta la nazione sono accorse all’estremo Nord-Est per testimoniare come una nuova civiltà fondata sulla pace e sulla fraternità sia davvero possibile da parte di tutti, dalle singole famiglie alle comunità ecclesiali, dall’associazionismo al più piccolo ente del terzo settore.
In un tempo in cui il migrante e il disabile, il povero e il portatore di diversità divengono nemici da isolare, da emarginare, da scartare, la citazione che il papa ha fatto di Umberto Saba diventa l’orizzonte a cui far riferimento: nell’abituale tornare a casa del poeta, passando di sera per le vie oscure di Città vecchia e ritrovando in quel luogo di degrado marinai e prostitute, in quelle creature egli ritrovava «l’infinito nell’umiltà» e come «s’agita in esse, come in me, il Signore».
Questo il commento di Francesco: «Dio si nasconde negli angoli scuri della vita della nostra città… La sua presenza si svela proprio nei volti scavati dalla sofferenza e laddove sembra trionfare il degrado. L’infinito di Dio si cela nella miseria umana, il Signore si agita e si rende presente, e si rende una presenza amica proprio nella carne ferita degli ultimi, dei dimenticati, degli scartati».
Per papa Bergoglio, dinanzi al male che dilaga e che non ci scandalizza, c’è bisogno di ritrovare una «fede umana, di carne, che entra nella storia, che accarezza la vita della gente, che risana i cuori spezzati, che diventa lievito di speranza e germe di un mondo nuovo… una fede che sveglia le coscienze dal torpore, che mette il dito nelle piaghe della società, una fede che suscita domande sul futuro dell’uomo e della storia; una fede inquieta… che aiuta a vincere la mediocrità e l’accidia del cuore… una fede che spiazza i calcoli dell’egoismo umano, che denuncia il male, che punta il dito contro le ingiustizie, che disturba le trame di chi, all’ombra del potere, gioca sulla pelle dei deboli».
La grande sfida per una viva democrazia sta ancora nell’“etica del volto” capace di traghettarci dall’identità all’alterità, dal primato dell’io al primato dell’altro: è l’incontro dei volti che ci salva la vita, che ci dice ancora una volta chi siamo e chi vogliamo essere di fronte all’altro, se siamo capaci d’indignarci per le situazioni in cui la vita viene abbruttita, ferita, uccisa, quale futuro desideriamo costruire e consegnare alle nuove generazioni, su quale tipo di società vogliamo scommettere, alla fin fine, se vogliamo davvero essere “fratelli tutti”.
Ce lo chiedono Satnam Singh, il bracciante indiano morto dissanguato perché abbandonato davanti a casa con il braccio tranciato a causa di un incidente sul lavoro, e tanti uomini e donne vittime di possesso e dominio (e l’indifferenza ne è figlia), che sono alla radice delle forme d’ingiustizia che continuano a gravare sulla nostra civiltà.
Illuminante, dunque, il passaggio a braccio del Pontefice nel ringraziare il vescovo di Trieste, mons. Trevisi che, chiedendo la benedizione per la sua gente, ha fatto alcuni nomi, prima Manuel, giovane malato di SLA, poi i migranti Ashan e Madiha: «Li ha nominati! Li conosce per nome! E questo è un esempio, perché la carità è concreta, l’amore è concreto… Ogni persona, sana o malata, grande o piccola, ogni persona ha una dignità. La dignità si fa vedere con il nome e lui conosce il nome. Molto bello».
E profetico, perché saper riconoscere il nome significa mettere al centro la persona, ri-conoscere la sua storia; significa non girarsi dall’altra parte, lottare perché sia considerata nella sua dignità, divenire partecipi del suo cammino di liberazione. È questa l’arte di restare umani.
Nella Settimana sociale tutto questo ce l’ha ricordato anche un simbolo che nel capoluogo giuliano, a cent’anni dalla nascita di Franco Basaglia, è perenne memoria della rivoluzione che ha portato alla Legge 180 e alla restituzione di dignità alla malattia mentale, nel considerare il malato come una persona da accogliere, ascoltare, comprendere, aiutare, e non da recludere. Si tratta del cavallo di cartapesta che ha “nitrito” anche a papa Francesco al suo arrivo a Trieste.
Era il gennaio 1973 quando nel manicomio finalmente aperto di San Giovanni, nella periferia di Trieste, era da poco nata la prima cooperativa. Basaglia aveva messo a disposizione a degli artisti uno dei primi reparti vuoti dando inizio a un singolare laboratorio. Angelina, un’assistita, aveva disegnato un cavallo; diceva che si chiamava Marco, come il cavallo che portava su e giù per San Giovanni il carretto della biancheria sporca e che, ormai vecchio, stava per essere mandato al macello.
È così che è nato Marco Cavallo, azzurro come il cielo e il mare, il colore della libertà. Per cogliere oggi il senso della presenza di Marco Cavallo basti pensare alla tragica oscenità dei reparti psichiatrici che ancora segnano dolorosamente il mondo con le porte blindate, i letti di contenzione, le persone abbandonate, l’impiego massiccio e irrazionale dei farmaci, le solitudini, gli abbandoni…
Quando il cavallo azzurro lasciò il ghetto centinaia di internati lo seguirono. Per poter uscire doveva abbattere i muri a partire da quelli fisici: costruito all’interno dell’edificio, per i suoi 4 metri di altezza fu fatto “evadere” sfondando alcune porte e un architrave, permettendo così la rottura anche del muro simbolico fra il “dentro” e il “fuori”.
Cominciò così il viaggio di Marco Cavallo nelle carceri, negli ospedali psichiatrici, nei campi profughi, nelle scuole, negli ospizi, in tutte le istituzioni totali.
Finora la sua storia ha parlato di libertà a milioni di persone e tuttora si batte potente e coraggioso contro l’esclusione, le diseguaglianze, i potenti, le porte chiuse e i confini insormontabili.
È la medesima strada che il vescovo di Roma indica alle diverse anime del cattolicesimo, che potranno ritrovare un fecondo dialogo nella misura in cui faranno riferimento alle stesse bussole: come cristiani, al Vangelo e, come cittadini, alla Costituzione.
E, indicando quella strada, chiede di scommettere sul paziente avvio di processi più che sulla conquista di spazi. Solo così, in un cammino autenticamente sinodale dove, come ha affermato Mattarella «democrazia è camminare insieme», daremo vita a comunità solidali frutto di “cuori risanati” capaci di favorire l’intreccio di due fili d’oro: la messa in comune delle risorse e la creazione di legami fecondati dalla solidarietà. Perché partecipare è l’ossigeno della democrazia.