Marco Aquini e la sua baita

L’ultimo Passaparola a firma di Biancarosa Chiarandini ci porta in Valbruna, nel tarvisiano in un intreccio di storia, poesia, rapporti profondi di amicizia. Ne pubblichiamo due brani.

Abbarbicata su un masso erratico che si eleva solitario su un prato verdissimo, simile al bastione di un antico castello, su cui un vecchio alpino innamorato della montagna posò gli occhi senza più distoglierne lo sguardo, vi è una piccola baita vigilata da due alti larici. Il ballatoio fiorito è rivolto ai monti giganti, fosforescenti nella luce. Vi si accede attraverso un passaggio naturale, scavato salendo il ripido sentiero.

La Baita è un piccolo gioiello, ogni mobile, ogni oggetto che la completano sono come note di un unico canto: i mobili lineari, essenziali, in legno d’abete, i piatti decorativi e i boccaletti dipinti con le tipiche decorazioni montane, gli accessori per il caminetto in ferro battuto, i legni scolpiti della Val Gardena, le corna di camoscio.

Dall’orologio scatta il cucù e segna le ore, che qui hanno un’altra misura del tempo. Il barometro spia felice la ricomparsa del sole. Nel breve scaffale, i classici della montagna, la flora delle Alpi. Ogni oggetto sta accanto all’altro con un intimo accordo. Le camere laterali sono come le cabine delle navi: ricavate dal sottotetto offrono conforto e calore; la più ampia, invece, gode di un terrazzo da cui scorgi un panorama impareggiabile.

Di prepotenza il monte penetra negli occhi, nell’anima, nella vita degli abitatori. Una Madonnina incastonata nella roccia benedice la gente alpina, sotto di lei un ciuffo di corolle azzurre esce dalla nuda pietra. L’amore per la montagna è diventato sentimento religioso. Nell’intimità di questa Baita si è creata l’armonia con il sospiro dei boschi, il rumoreggiare dell’acqua, la luce raggiante e il silenzio.

«Era una bellissima e calda mattinata di sole, spirava un po’ di brezza – ricorda Luciano Battaini –. Dopo colazione Marco mi propose: “Oggi potremmo andare a vedere quella cascatella che ti piace tanto”. Dalle finestre della Baita, infatti, la si poteva scorgere e incoraggiava la mia fantasia. Camminammo per circa un’oretta alla ricerca del sentiero che portasse a questa cascatella. Trovatolo mi accorsi subito che vi era una forte pendenza, ma non volevo deludere Marco confidandogli che io soffrivo di vertigini. Ci siamo inoltrati lungo un breve percorso attraverso un boschetto per poi arrampicarci sui massi che risalivano la cascata.

Ad un certo punto Marco affermò: “Meglio se ci fermiamo, d’ora in poi il sentiero si fa pericoloso”. Abbiamo continuato il cammino lungo un ghiaione per risalire e infine scollinare dall’altra parte. Marco, leggero e veloce come un cerbiatto, era ormai quasi in cima, mentre io piano piano mi affannavo per il timore di scivolare. Ad un tratto mi è sembrato di non sentire più l’appoggio sotto i piedi e ho avvertito un senso di vuoto. Mi sono aggrappato alla prima radice che mi capitasse, rimanendo inchiodato pancia a terra e chiedendo aiuto.

Marco tornò sui suoi passi, mi tranquillizzò, mi aiutò a rimettermi in piedi e, siccome le mie gambe erano paralizzate per la paura, nonostante pesasse all’incirca la metà del mio peso, senza batter ciglio mi sollevò, mi caricò in spalla e mi trasportò fino in cima al ghiaione, affinché potessi gustare il panorama in sicurezza e mi aiutò poi a scendere dal versante opposto per tornare a casa.

Io non sapevo come scusarmi, dispiaciuto per l’accaduto. Marco, per tutta risposta, con molta semplicità mi disse: “Alla mamma non raccontiamo niente, perché poi magari si preoccupa”. Questo era il nostro segreto, che mi porto ancora nel cuore».

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