Marajò, isola privilegiata

Pochi sanno il motivo per cui essa è stata associata al disastro demografico più grande del XX secolo, e forse di sempre

Avete mai sentito parlare dell’isola brasiliana di Marajó? Allora vi manca un dato interessante. Ci tornerò sopra alla fine di questo itinerario. Intanto basti sapere che nel marzo di 100 anni fa iniziava il suo letale percorso l’influenza cosiddetta “spagnola”. La prima volta che sentii parlare di questa che esordì con tutte le caratteristiche di una influenza stagionale fu da mia nonna, che ne era stata colpita in forma leggera. Oggi un libro edito da Marsilio della giornalista scientifica Laura Spinney, 1918. L’influenza spagnola, espone con una ricca documentazione – ciò che mia nonna non era stata in grado di fare –  la vera storia delle “pandemia che cambiò il mondo”, sottotitolo per niente esagerato se si pensa che questo virus uccise in due anni più persone dello stesso Primo conflitto mondiale, che fece “soltanto” 26 milioni di vittime: infatti, i più recenti studi (fine anni Novanta) parlano di un numero che oscilla fra i 50 e i 100 milioni. Una enormità, che sembra non abbia confronti con nessuna altra pandemia del passato, compresa la terribile peste nera del XIV secolo. Ma tutto ciò passò in second’ordine davanti alle devastazioni della guerra, probabilmente la vera causa scatenante della diffusione del virus in tutto il globo, quando la smobilitazione delle truppe riportò nelle rispettive patrie enormi masse di uomini.

“Spagnola” si chiamò l’influenza perché primi ad annunciarla furono i giornali spagnoli, non sottoposti alla censura di guerra in quanto la Spagna non era coinvolta nel macello mondiale, a differenza degli altri Paesi dove il suo violento dilagare era tenuto nascosto dai servizi d’informazione. Portatori del virus, diffuso tra gli umani dagli uccelli acquatici (è una delle ipotesi), sarebbero stati i militari del corpo di spedizione statunitense destinato a combattere in Europa. Il grosso dei morti, per la maggior parte giovani, fu registrato tra settembre e dicembre del 1918 e tra le vittime illustri vi furono anche artisti e intellettuali del calibro di Guillaume Apollinaire, Egon Schiele e Max Weber, insieme ad una delle veggenti di Fatima, la piccola Giacinta. Lo stesso Gandhi subì il contagio, riuscendo tuttavia a sopravvivere. Nessun Paese e continente venne risparmiato da questa tragedia. La Spinney ne dà una rilettura avvincente da un punto di vista scientifico, storico e culturale, restituendo alla pandemia la sua importanza nella storia di inizio Novecento. Non solo: a partire dagli studi più recenti nei campi della storia, della virologia, dell’epidemiologia, della psicologia e dell’economia, l’autrice tenta di immaginare quale futuro ci attende: nel XXI secolo, infatti, sono previste almeno quattro pandemie, una delle quali avrà la forma influenzale. Arriveremo preparati ad affrontare un’eventuale emergenza?

A questo punto ci si può chiedere cosa c’entri Marajò, isola dello Stato brasiliano del Parà, con la “spagnola”. È qui il punto: assolutamente niente! Ma viene ricordata al riguardo in quanto l’unico posto abitato del mondo rimasto immune dal contagio. Terra privilegiata, dunque, che con i suoi quasi 50 mila km² (se si aggiunge l’arcipelago vicino) è più vasta del Belgio o dell’Olanda ed è la più grande isola esistente a trovarsi nel delta di un fiume. Il suo nome indigeno in lingua tupi-guaranì significa “barriera del mare”: infatti s’affaccia sull’Atlantico bagnandosi nell’acqua salata dell’oceano, per il resto circondata dall’imponente massa d’acqua dolce scaricata dal Rio delle Amazzoni. L’incontro tra le due acque genera il fenomeno del pororoca, la grande onda di marea che periodicamente risale la corrente del fiume per oltre 13-14 chilometri, accompagnata da un forte boato: pororoca, in lingua indigena, significa infatti “grande rumore distruttore”.

Abitata già in epoche remote, forse addirittura fin dal primo millennio a. C., come testimoniano i reperti per lo più ceramici rinvenuti dagli archeologi, l’isola intera risuona dei ritmi e danze tipici dell’area amazzonica. Come il carimbó, di origine indigena ma con influssi della cultura nera. O come il lundu, introdotto in Brasile dagli schiavi dell’Angola. Pianeggiante, coperta nella parte orientale dalla savana, mentre e in quella occidentale prevalgono le foreste pluviali, durante il periodo delle grandi piogge, tra gennaio e maggio, rimane in parte allagata di modo che le fazendas isolate sono raggiungibili solo con imbarcazioni. Il vantaggio è tutto dei bufali, animali che  – come è noto – amano sguazzare negli acquitrini. In nessun altro posto del Brasile se ne trovano tanti come a Marajó, utilizzati principalmente nel trasporto ma anche come alimento (la loro carne è alla base di alcuni piatti tipici).

Oltre all’allevamento dei bufali in grandi tenute terriere, l’economia locale si regge sullo sfruttamento delle foreste e la produzione di caucciù. Marajó conta 14 città superiori ai 10 mila abitanti. Breves è la principale con i suoi circa 100 mila, mentre Soure e Salvaterra sono le più visitate dai turisti. Ad attrarli, oltre alle incantevoli spiagge, è la meravigliosa biodiversità delle foreste originarie, in parte conservate nel lato ovest. Famosa è la palma produttrice dell’acaí, uno dei frutti più nutrienti della regione amazzonica, già noto alle antiche popolazioni indigene per le sue proprietà quasi miracolose. C’è poi chi viene a Marajó solo per veder svolazzare sugli specchi d’acqua i bellissimi ibis rossi o per farsi incantare, nelle selve lussureggianti, dai mille fiori tropicali. Attenzione però ai piranhas, i pesci cannibali, e più ancora agli alligatori!

Sapranno, i nativi, della “spagnola” che risparmiò la loro terra? E quanti di loro saranno al corrente – come c’informa il libro della Spinney – dei ricercatori che ad Atlanta, in Georgia, stanno studiando il virus ricostruito, conservato in una struttura di massima sicurezza nella speranza di sviluppare vaccini più efficaci in caso di future pandemie.

 

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