Manovra economica nella continuità, con l’incognita inflazione

Una prima valutazione di alcuni punti della legge di Bilancio, presentata alle Camere dal governo Meloni, senza scossoni rispetto al governo precedente. La vera novità arriverà dall’inflazione sui conti di famiglie e imprese
Manovra economica, Giancarlo Giorgetti ministro Economia Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Vi ricordate il 2018, quando si trovarono ad avere la piena responsabilità del governo due forze politiche decisamente alternative ai governi precedenti? La manovra di bilancio per l’anno successivo fu l’occasione di mostrare la loro diversità, di negare la necessità di un serio vincolo finanziario e di inserire in ciascuna un costoso provvedimento-bandiera (quota 100 per la Lega e il reddito di cittadinanza per i 5 Stelle).

Seguì un acceso conflitto con le autorità europee, una vendita in massa di titoli di Stato italiani (e quindi una risalita dello “spread”, il barometro della sfiducia dei mercati finanziari verso il Paese), una rilevante fuga di capitali e – quello che toccò di più il grosso della cittadinanza – un brusco rallentamento dell’attività economica.

Nulla di tutto ciò ha accompagnato l’approvazione del disegno di legge di bilancio il 21 novembre da parte del governo guidato da Giorgia Meloni, leader dell’unico partito alternativo al governo precedente: con le autorità europee sul fronte economia le relazioni sono distese (a differenza del fronte rifugiati); lo spread non ha avuto scossoni e l’attuale valore, sotto i 200 punti base, è decisamente più basso rispetto alla scorsa estate, quando prevaleva l’incertezza; simile è il messaggio che viene dalla borsa azionaria.

Questo è il primo significativo dato della manovra economica per il 2023. Senz’altro una buona notizia, almeno dal mio punto di vista.

I provvedimenti annunciati parlano di continuità. Quasi due terzi dei 35 miliardi stanziati vanno a contrastare il caro energia, lungo linee già sperimentate dal governo Draghi.

Di fronte ad un’impennata dei prezzi dei prodotti energetici dell’ordine di varie decine di miliardi, i sussidi governativi si concentrano giustamente sui soggetti più esposti, in particolare le famiglie al di sotto dei 15.000 euro di Isee (in precedenza la soglia era a 12.000).

Al contrario, il taglio delle tasse sui carburanti ha riguardato tutti gli automobilisti, con un costo per le finanze pubbliche attorno ai 5 miliardi. Nel confermare questa detassazione dei carburanti, il governo Meloni la riduce dai 30 centesimi del governo Draghi a 18 centesimi, facilitato anche da un certo sgonfiamento del prezzo internazionale del petrolio.

Non so a voi, ma a me dispiace vedere i soldi pubblici impegnati a favorire la prosecuzione di modelli di mobilità insostenibili, a beneficio dei produttori. Troveremo il coraggio di cambiare rotta?

Che la manovra rinvii ulteriormente l’introduzione già prevista di una tassa sulla plastica monouso non è un segnale promettente. È da sperare che le mosse del ministro Pichetto Fratin, nel preoccuparsi per l’economicità e la sicurezza dell’accesso all’energia, non mettano in subordine le drammatiche esigenze globali dell’Ambiente (l’altra metà del nome del ministero affidatogli).

Lo sforzo del nuovo governo di imprimere un orientamento politico alla manovra si concentra  soprattutto nei restante terzo, pari a circa 13 miliardi. La cifra è modesta (poco più dell’1% del bilancio pubblico), il che si spiega con il condizionamento creato dalla crisi energetica e con la tempistica troppo stretta, visto che il governo è entrato in carica quasi a fine anno; ma pesano anche le sue divisioni interne, che gli tolgono la forza necessaria per andare a toccare i privilegi e le inefficienze che si annidano nel restante 99%, come peraltro è successo alla gran parte dei governi che lo hanno preceduto.

Seguono alcuni commenti sui singoli provvedimenti, che sono ancora abbastanza fluidi perché soggetti all’esame parlamentare.

Bene, a mio avviso, quanto deciso a sostegno della famiglia (rafforzamento dell’assegno unico per i figli e del congedo parentale) e gli sgravi contributivi sul lavoro dipendente, confermati ed ampliati, seppur di poco.

Lascia perplessi, invece, l’innalzamento della soglia dei pagamenti in contanti da 1000 a 5000 euro, come pure la retromarcia sull’obbligo di accettare pagamenti elettronici (e quindi tracciabili) fino ai 30 euro, che potrebbero diventare 60.

Se aggiungiamo la cancellazione delle cartelle esattoriali non pagate fino a 1000 euro (ma non sarebbe la prima volta) e un trattamento più favorevole anche per quelle fino a 5000, condoni presentati come “pace fiscale”, chi sarà più felice non è certo chi rispetta le regole.

A beneficio – anche in questo caso – dei titolari di attività in proprio va l’estensione della tassazione di favore al 15% per i redditi da lavoro autonomo (la soglia passa da 65.000 a 85.000 euro) e anche agli aumenti di reddito fino a 40.000 euro. Ciò crea una forte disparità di trattamento rispetto a lavoratori dipendenti e pensionati che resta tutta da giustificare, e che incoraggerà la trasformazione di posti di lavoro dipendente in finti lavoratori autonomi.

Il tema del Reddito di cittadinanza, ridimensionato dal disegno di legge governativo, meriterebbe una riflessione più attenta di quella possibile qui. Dirò solo che ripensarlo non è necessariamente un attacco ai poveri, ma che una sua riforma non può neanche essere un atto affrettato inteso a soddisfare le aspettative create nella propria base elettorale, come fu la sua istituzione: il supporto dei soggetti in difficoltà è cosa troppo seria e delicata per essere deciso in modo ideologico o demagogico.

In fatto di anticipo pensionistico – una richiesta ricorrente della Lega di Salvini dopo l’approvazione della riforma Fornero – questa volta la “quota” proposta è 103 e le classi beneficiarie sono quelle dei nati nel 1960 e nel 1961, che avranno o un’uscita anticipata, o un premio se restano al lavoro.

Quale sia la priorità di questo beneficio, quando urgono tante altre necessità, non è affatto chiaro.

La manovra contiene un altro provvedimento in materia: il taglio della rivalutazione delle pensioni al crescere dei prezzi  per le pensioni superiori a 4 volte la minima (ossia a 2100 euro lordi al mese). Si realizza così una limatura di fatto delle pensioni più alte (per quelle superiori a 5250 euro lordi al mese la rivalutazione in caso di crescita dei prezzi al 10% sarebbe solo del 3,5%). Ciò ha buone ragioni nella situazione italiana, dove le giovani generazioni si trovano sovraccaricate dall’obbligo di erogare un’enorme massa pensionistica anche per effetto di decisioni troppo “generose” da parte della classe politica.

Data la difficoltà di realizzare un alleggerimento diretto, esplicito di tale massa, si lascia che a farlo sia l’inflazione. Così, anziché dover decurtare quella cifra che i pensionati sono abituati a ricevere ogni mese, basterà aumentarla meno di quanto sarebbe necessario per compensare pienamente la crescita dei prezzi. Attenzione però all’arbitrarietà di questo processo: quanto grande sarà la limatura nessuno lo sa. E potrebbe facilmente risultare eccessiva, soprattutto se il taglio della rivalutazione si prolunga nel tempo.

Queste considerazioni ci portano all’ultimo punto che vorrei toccare: la manovra più importante potrebbero farla non i provvedimenti indicati nei documenti presentati, ma proprio l’inflazione.

Prendiamo la sanità: l’aumento di spesa previsto nel 2023 rispetto al 2022 è di 4 miliardi, pari al 3,2%, quando la crescita dei prezzi al consumo ha superato il 10%. Osservazioni analoghe si possono fare per gli altri ministeri e per i trasferimenti agli enti locali. Se il governo resterà fedele alle previsioni di bilancio avremo una vera e propria austerità, che se fosse gestita tagliando gli sprechi potrebbe anche avere i suoi benefici. È facile, però, che quelle previsioni vengano stravolte.

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