Manon appassionata

Resiste ancora l’operacapolavoro del maestro francese. L’ispirazione, anche se con una certa diseguaglianza, è suadente; armoniosa l’orchestrazione, raffinato il canto, equilibrato il senso dello spettacolo in quel Settecento manierato che piace ai francesi fin de siècle: la storia della ragazzina destinata al convento che diventa femme fatale, seduce il cavalier Des Grieux e muore derelitta innamorata, ricorda tanto Traviata e poi Bohème. Priva tuttavia della moralità verdiana e della (finta) ingenuità pucciniana, qui è un risveglio primaverile all’amore tutto seduzione come in una tela di Fragonard. La musica del dolce Massenet si basa su temi ricorrenti di morbido impasto strumentale, procede per frammenti di stili vari, e trova la sua unità nell’atmosfera borotalcacea, ricamata dell’insieme. Nessuna crudeltà linguistica nel canto e nell’orchestra: un melodiare per frasi brevi ed espanse, carezzevoli talora, un affresco di eleganza sentimentale più accennata che approfondita. Però, che atmosfera in certi momenti, che palpitazioni di amore tutta emotività: anche se vissuta più a pelle che scavata. È il pregio, il fascino (e il limite) di Massenet. Alla Scala, un duo di protagonisti come Inva Mula e Massimo Giordano hanno dato vita ad una partitura iper-raffinata e perciò vocalmente non facile. Se Inva Mula eccelle per il timbro cristallino e il lasciarsi andare così bello nella voce, Giordano emerge con un timbro brunito, pieno e leggero, dagli acuti ai gravi, con assoluta naturalezza: nei duetti i due hanno cantato con una precisione e un’armonia oggi rara. Preziosa poi è apparsa la prestazione del baritono Fabio Capitanucci, un giovane cantanteattore di sicuro avvenire, voce distesa, nobile, melodiosa. Buono il coro mentre l’orchestra ha assaggiato sotto la bacchetta fremente di Ion Marin il clima della passione più che le sue sfumature. Esse invece sono emerse dalla regia equilibrata di Nicolas Joel, in cui le scene composte, raffinate di Ezio Frigerio ben si combinavano ai costumi d’epoca di Franca Squarciapino in uno spettacolo di levigato omaggio alla miglior tradizione. UN TURCO ANNI VENTI G.Rossini, Il Turco in Italia. Roma, Teatro dell’Opera. Felice l’idea di ambientare negli anni Venti, con un punta di maliziosità e d’ironia garbata per un mondo civettuolo che oggi fa sorridere, la storiella di Selim – turco che, lasciata Zaida, cerca avventure in Italia – e di Fiorilla, moglie annoiata di don Geronio, pure lei a caccia di follie, tra un poeta che approfitta delle situazioni per scrivere un dramma in musica e il cavalier servente Narciso. Finale di riappacificazione delle coppie legittime, un po’ come in Così fan tutte. C’è in effetti una certa qual aria mozartiana nel lavoro di Gioachino ventiduenne, frizzante, con finali meno catastrofici del solito, e una bonomia di fondo che manca ad Amadeus. Rossini ti solleva il morale con il suo brio, la dolcezza cullante degli Andante, i frizzi dell’orchestra, le fugaci malinconie: insomma, sempre lui, fa bene sentirlo tra le uggiosità attuali, in un’opera purtroppo tanto bella quanto poco nota. Scatenata la regia di Stefano Vizioli, tra le scene rutilanti di Susanna Rossi Jost, come gli interpreti, tra cui il bravo Selim di Carlo Lepore, il giusto buffo Paolo Rumetz, e la Fiorilla di Angeles Blancas Gulin, ottima attrice ma cantante talora sopra le righe e troppo callasiana. L’orchestra, con Donato Renzetti alla guida, ha rinnovato i colori rossiniani con gusto, e alcune accentuazioni pregevoli (le viole, nella Sinfonia, il canto melodioso del primo corno…). Spettacolo molto bello e, se curata di più la parte vocale, certo da esportare.

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