Mano di bambina
Salendo alla piramide di Tepoztlan s’incontra la natura e il passato dei Mexica.
Lasciando Tepoztlan mi avvio verso la piramide. Le cicale mi accolgono con un rumore assordante. Via via il sentiero si fa più scabroso, una bambina mi tende la mano. Mi appoggio a lei. Salendo nel bosco, su una gradinata interminabile di pietre, incontro pietre, poi pietre, ancora pietre, lava, basalto. Muraglie di rocce si alzano ai miei fianchi. Altezze paurose. Poi montagne, formate come torri. Magiche. Bellissime.
Continuo a salire, mano nella mano di bambina. Siedo su un muricciolo. Davanti, un albero, di secoli, contorto dal vento e dalle tempeste. Continuo.
L’allegria della bambina mi sostiene, mi rianima. Avvicinandomi al tempio, sento voci. Voci di re antichi, voci di sacerdoti, di uomini e donne: «Perché siete saliti a calpestare questo suolo sacro? Con quali sentimenti vi avvicinate ai nostri dei, al divino?». Finalmente siamo in cima. Ammiro la piramide, un piccolo tempio, quasi distrutto, sia dai secoli che da uomini insensati. Una torma di tecones affamati ci investe: la loro presenza ci ricorda che loro sono i veri padroni della montagna. La bambina si spaventa. È il suo primo incontro con la natura selvaggia. Ci dicono senza parole: «I mexica già non ci sono, nemmeno Ahuizotl, rimangono i resti gloriosi di Tepoztecalt». Che sapienza, che amore alla natura e alla bellezza!