Mani aperte
Bukas Palad, un nome che ormai tanti hanno cominciato a conoscere. Ultima a citare questa esperienza sociale promossa dai Focolari a Manila – ma con filiazioni anche a Tagaytay, a la Union a Cebu e a Davao -, è stata Raffaella Carrà, che ha voluto inserire questo progetto nel suo programma Amore. Così le adozioni a distanza sono state incrementate di 500 unità, che si aggiungono alle 880 già accese. Bukas Palad vuol dire a mani aperte. Ha 23 anni di attività alle spalle, in un quartiere poverissimo della capitale filippina, incastonato tra l’avveniristica Makati e le ville residenziali di tanti ricchi del paese. Una formula fortunata, perché ha permesso di coniugare l’arte di amare dei Focolari con il lavoro per la giustizia e per la libertà. Entro in un piccolo cortile dove un gruppo vociante di bambini sta scrivendo letterine ai genitori adottivi, sotto lo sguardo di alcuni educatori. Mamme e papà stanno aspettando il loro turno per ritirare degli aiuti. Mi presentano due fratellini – una bambina e un bambino – che la giornalista Rai inviata a riprendere l’esperienza di Bukas Palad ha voluto adottare. Sono bellissimi nella loro umanità ferita, figlia della morte (della madre) e dell’alcolismo (del padre). La storia di Bukas Palad trova la sua origine in un appello che, appunto 23 anni fa, Chiara Lubich lanciò ai giovani del movimento: Bisogna morire per la propria gente. Così alcuni giovani di Manila, accortisi per la prima volta che accanto a loro c’erano i poveri- tra-i-più-poveri, hanno cominciato con un doposcuola, con qualche pasto, con la riparazione di qualche baracca. Una famiglia ha offerto l’edificio che sto visitando, ora minacciato dai costruttori di grattacieli che vorrebbero cacciare dalla città tutti questi inutili poveri… Per contrastarli, si sta cercando di acquisire le terre circostanti, e così scongiurare una fine ancor più ingloriosa per le tremila persone che possono essere definite abitanti di Bukas Palad. Marvi Tulaman è una delle principali animatrici del centro. Per lavorarvi ha lasciato un buon lavoro all’università. Ben presto ci siamo accorti – mi racconta – della necessità non solo di aiutare i bambini che venivano da noi, ma di risalire alle famiglie, perché altrimenti i nostri sforzi sarebbero irrimediabilmente naufragati, vanificando l’opera di risanamento umano dell’ambiente. Ad esempio, se una bambina viene da noi e si scopre che è tubercolosa, evidentemente non basta curarla, se non si cura anche il resto del nucleo familiare. È un’azione globale di risanamento, quella che intraprendiamo, che giunge fino a realizzare un progetto destinato a fornire delle vere case alla gente che a Bukas Palad cerca di emer- gere dal fango. Letteralmente dal fango. Per questo ora qui lavorano 77 persone, più decine di altri volontari saltuari. A capo dei singoli programmi, ora ci sono persone che sono state beneficiate da Bukas Palad, che perciò sanno meglio di chiunque altro che cosa bisogna fare. È la gente del quartiere che è stata aiutata, ad aiutare a sua volta. Edna Villaraza è madre di due figli, dolce e piena di energie, con le quali dirige il centro: È la gente del quartiere che si mette in moto e diventa a sua volta fattore di sviluppo umano.Ma è un lavoro lungo, che richiede tempo. È per questo che abbiamo esitato prima di accettare le proposte della Rai, perché temevamo di fare un passo in avanti troppo rapido, di contravvenire cioè a quelle regole che sono state assolutamente fondamentali nello sviluppo di Bukas Palad: bisogna in effetti trovare le persone giuste e le energie adatte, bisogna che i bambini siano veramente seguiti e aiutati ad emergere e a rendersi autosufficienti. Ogni anno aumentiamo di sole 50 unità le nostre adozioni…. Edna mi conduce a visitare le aula della scuola materna che ogni giorno serve 250 bambini in età prescolare: Bisogna prendere questi piccoli prima che vadano a scuola, prima che imparino troppe cose negative dalla vita. Anche le lezioni di catechismo sono una promozione umana, anche il raccontarsi le proprie esperienze di vita cristiana. E poi c’è la cura dei genitori: una volta a settimana debbono passare qui da noi per dirci come vanno le cose, per poterli eventualmente aiutare o redarguire, perché non hanno rispettato i patti stretti nel concedere l’adozione: uso di alcol, mancata frequenza della scuola, abbandono del lavoro…. Su una parete vedo la foto di un giovane uomo sorridente su un mucchio di spazzatura: Quello è Tirso – mi spiega Edna -, un giovane di 22 anni che coi suoi fratelli abita sotto il ponte qui vicino. La notte escono per fare le pattumiere. Una delle sorelle era afflitta da epilessia grave, e per curarla Tirso aveva messo su una vera e propria azienda clandestina di riciclaggio dei rifiuti. Ora il giovane frequenta la scuola, la prima media, dopo che lo abbiamo raccomandato alla direttrice, che altrimenti non lo avrebbe accolto, per via dell’età. Un’altra donna straordinaria, ben oltre la settantina, una pioniera di Bukas Palad: ecco Irene de Los Angeles. Il progetto è andato avanti perché le persone aiutate sono cresciute – mi spiega -; l’altro giorno, ad esempio, mi ha salutato un uomo che avevo conosciuto da ragazzino, e che ha fatto carriera. Sua nonna era stata una delle prime ad essere aiutate, era malata di Tbc e al mercato ogni giorno vendeva due carote e qualche cipolla. Le avevo detto all’epoca: Bukas Palad è vostra, dobbiamo lavorare insieme. Questa è stata la grande intuizione suggerita da Chiara Lubich . Si volta, Irene, e scorge Serafim, un ragazzo nato nel quartiere, e ora in politica. È stato il primo assunto da Bukas Palad. È figlio suo, di Irene, lo vedo, lo sento, ne ho la certezza. Ricordo – prosegue Irene – quanti bambini abbiamo seguito, quasi tutti malati per malnutrizione. Cercavo di entrare nelle loro case, ma le mamme pudiche non volevano mostrare la loro miseria. Finché non trovavo questi bambini all’ospedale, e allora ne parlavo con le madri, che finalmente acconsentivano a farmi entrare da loro. Così cominciavo a insegnare loro come alimentare i figli. Serafim così è cresciuto bene . Irene, pur di famiglia ricca, aveva un papà che amava i poveri. All’università era stata eletta a capo di un club di studenti, e come primo atto del suo mandato aveva inserito nello statuto la finalità del progresso della società aiutando i più poveri… Prosegue: Mi sono sentita trascinata da subito in quest’avventura, perché mi avrebbe portato ad applicare il Vangelo coi poveri tanto amati. Ho cercato subito di coinvolgere un gruppo di donne ricche. Tutte, nessuna esclusa, hanno aderito alla mia proposta. Tanti sono gli episodi che Irene mi racconta, come quella volta che un uomo le chiese aiuto per arrivare alla fine del mese. Irene nel giro di qualche ora ricevette esattamente la cifra che aveva richiesto… Anche oggi la stessa esperienza si ripete, perché la nostra banca è in cielo. Ed a noi è chiesto solo di vivere il Vangelo e poi di chiedere il necessario. Il suo motto? Quello insegnatole da Chiara stessa: Lavorare come facchini e pregare come angeli. All’ultimo piano dell’edificio a quattro livelli che ospita il centro propulsivo di Bukas Palad, alcune persone di varia età (impossibile distinguere gli animatori dai beneficiati) hanno imbastito per il sot- toscritto un vero e proprio piccolo dramma teatrale sulla nascita e lo sviluppo di Bukas Palad. Gli improvvisati attori si muovono con straordinaria naturalezza: penso ai drammi che si celano dietro gli sguardi di ognuno di loro, ma anche all’enorme generosità che ha fatto sì che, nella loro condanna inappellabile alla miseria, sia intervenuta una mano aperta, che ha cambiato la storia. Nel corso dello spettacolino, una ragazza racconta come, attraverso l’aiuto di Bukas Palad, la sua famiglia si sia riunita e tutti abbiano potuto studiare. E un’altra giovane, che invece viene da un quartiere ricco, racconta come si sia accorta a Bukas Palad che la ricchezza spirituale e umana di questa gente era quasi sempre superiore a quella che trovava tra i suoi amici ricchi. È arrivando qui, portata da un amica, che ha trovato la sua vocazione professionale di assistente sociale. Appare evidente come ognuno acquisti una sua serenità e una sua dignità. Sta qui il miracolo di Bukas Palad, dove le cose avanzano lentamente ma sicuramente, a garanzia che il tempo sarà galantuomo; spesso le Ong partono con grandi fondi e ingiustificate speranze, ma quasi estranee alla società che si vuole soccorrere. E così, dopo il boom iniziale, la crisi arriva, e tutto crolla. Bukas Palad avanza da 23 anni. Lentamente. Sicuramente. MANOLITO 23 anni, studia pedagogia, parla bene l’inglese e sa descrivere bene le situazioni che vive. Non lo si direbbe un figlio del quartiere. Di dodici figli io sono il maggiore. La prima volta che ho messo piede a Bukas Palad ero malato, e mi hanno curato. Mia madre chiese un po’ d’aiuto perché papà non aveva lavoro. Mise su un negozietto. Abbiamo potuto mangiare con una certa regolarità. Poi un incendio ha distrutto tutto. Bukas Palad ci ha dato allora i materiali per ricostruire la casa, ma cinque dei miei fratelli furono ricoverati in ospedale per malnutrizione… A quel punto siamo stati adottati a distanza, tutti e dodici i figli. E poco alla volta ci siamo tirati fuori. La casa di Manolito è una baracca, venti metri quadrati per quindici persone. La scala d’ingresso è barcollante, le pareti sono di cartone e legno, il tetto è marcio. Una fila di libri è issata al soffitto con una mensola. Dormono tutti per terra. Ci sarebbero i soldi per ristrutturare la casa, ma le beghe di vicinato hanno impedito i lavori. Eppure nello sguardo di tutti i membri della famiglia c’è dignità, e una certa serenità. LA FAMIGLIA LUMITAO Alfredo, Corazon e Maria Corazon (chiamata Precious) sono padre, madre e figlia. I Lumitao hanno già fatto il salto: vivono in una delle case costruite col primo progetto housing. Ecco il loro racconto: Ero ammalata – racconta Corazon – quando ho conosciuto Bukas Palad. Mio marito era disoccupato e mia sorella aveva voluto indietro la sua casa. Con l’aiuto del centro abbiamo messo su un lavoretto per la raccolta degli stracci, ma mia sorella ci ha di nuovo imbrogliato, e così ci siamo trovati senza nulla. Le nostre due figlie avevano voti ottimi, e così Bukas Palad ha pagato i loro studi. Il marito Alfredo racconta il loro presente: Ora lavoriamo sia io che mia moglie per le adozioni a distanza. Seguo anche lo spaccio e il programma alimentare. Precious vuole anch’ella dire la sua: Non ho mai visto la nostra esperienza come una cosa negativa. Eravamo bambine e credevamo che l’amore di Dio avrebbe trovato una soluzione ai nostri problemi. E debbo dire che non ci ha mai abbandonato. Sabato otterrò la mia laurea in biologia. Lo considero un miracolo . La casa è modesta ma decorosa. 50 metri quadri su due livelli, poco ma abbastanza per una vita degna. I MENDIOLA Raul Mendiola è uno scricciolo d’uomo, alto non più di un metro e cinquanta, magrissimo e dallo sguardo tipico degli alcolizzati. Sua moglie è morta di cancro, e ha tre figli da crescere, lavorando come autista di un triciclo a trazione umana. Ho conosciuto Bukas Palad perché una sua animatrice è venuta a casa nostra – mi dice -, per vedere come mai mio figlio era scappato di casa. Poi non riesce ad aggiungere altro. Sono i due figli, 12 e 11 anni, Jessyboy e Mary Rose, che mi spiegano la situazione. Vivono quasi tutto il giorno a Bukas Palad, nel centro, dove sono stati adottati un po’ da tutti, perché non hanno molto da poter vivere a casa. Studiano e mangiano lì, e talvolta anche vi dormono, quando il papà diventa violento per aver bevuto. Mi accompagnano alla loro casa; dalla strada principale che attraversa il quartiere, all’altezza del canale, si dirama una lunga teorie di baracche, a destra e a sinistra della strada, accanto al fiume oltremodo maleodorante. La gente vive nella via, cucina, scherza, gioca, aspetta che il tempo passi, in una gioiosa confusione attraversata dalle grida di tanti bambini, dai giochi degli adolescenti, dagli odori di fritto… La casa dei Mendiola è di legno compensato, in fondo dignitosa e ordinata, su due livelli, con due stanze da letto. Mi dico che anche nell’abiezione, la dignità può arrivare, così come può, quando può e come può. Nessuno e niente avrebbe mai potuto recuperare in quel modo un relitto umano. L’amore di Bukas Palad c’è riuscito.