In manette un altro ex presidente
Alla fine le manette sono scattate anche per l’ex presidente del Brasile, Michel Temer, iniziando un nuovo capitolo dello scandalo denominato Lava jato (autolavaggio). Finora era riuscito a schivare la giustizia, protetto dalle garanzie speciali in quanto carica dello Stato e da una barriera interposta dal Parlamento dove la maggioranza ha bocciato due volte l’autorizzazione a procedere in gennaio, in cambio di favori. Giovedì scorso il cittadino Temer è stato accusato (insieme ad altre 7 persone, tra cui un ex ministro del suo gabinetto) di aver organizzato una rete di corrotti che ha stornato circa 450 milioni di euro dai fondi pubblici destinati alla costruzione di una centrale nucleare.
Dopo 4 giorni dietro le sbarre la magistratura ha revocato l’ordine di arresto, considerando che non ci sono pericoli di inquinamento di prove o di fuga dell’accusato. Intanto la Procura brasiliana continua ad istruire il processo nei suoi confronti. Ma si può dire che siamo appena agli inizi delle vicende giudiziarie nelle quali è invischiato. Sono infatti ben 10 le cause istruite che lo vedono tra gli accusati, alle quali questo martedì si è aggiunta quella per i quasi 10 milioni di dollari in tangenti pagati a un collaboratore dell’ex presidente in meno di un anno da un importante gruppo industriale della carne. Il pagamento di una delle tangenti a un suo collaboratore è stata registrata in un video nel 2017, ma venne bloccata l’autorizzazione a procedere nel mezzo di uno scandalo generale per la pertinenza delle immagini diffuse dai media.
Il caso Lava jato si compone di numerose piste di investigazione, che hanno prodotto condanne nei confronti di circa 150 politici e imprenditori in 50 processi, con pene severe (un totale di 2.242 anni secondo il calcolo di uno degli inquirenti). Tra le vittime illustri di questa maxi causa, l’ex presidente Inacio Lula da Silva, con due condanne di 12 anni ciascuna per corruzione e riciclaggio di denaro. Lula asserisce di essere stato condannato per ragioni politiche e in base a meri indizi e non a prove concrete. E con lui sostengono questa tesi anche alcuni eminenti giuristi brasiliani. Ma Lava jato ha prodotto effetti anche fuori dal Brasile per le mazzette pagate dal gigante edile Odebrecht a esponenti politici di 12 Paesi. Finora è stato condannato l’ex presidente dell’Ecuador, Jorge Glas, sono sotto processo ben 4 ex presidenti del Perú (Humala, García, Kuczynski e Toledo), e la leader politica Keiko Fujimori. E anche qui, non siamo che agli inizi.
La figura di Temer, insieme col suo partito, il Movimento democratico brasiliano (un’organizzazione conservatrice di destra), è legata da sempre al potere, nonostante le modeste dimensioni elettorali, dato che ha spesso fornito i voti necessari alle maggioranze in un parlamento atomizzato. Temer è stato due volte vicepresidente eletto in tandem con Lula e poi con Dilma Rousseff, sulla base programmatica del centrosinistra. Un connubio alquanto innaturale sul piano ideologico, comprensibile per la necessità di assicurarsi una maggioranza parlamentare. La crisi economica scoppiata subito dopo l’inizio del mandato di Dilma Rousseff – e, sia detto, anche la sua incapacità di comprendere la natura della protesta scatenata dalla sua gestione priva di empatia con i problemi della gente – insieme alle schegge dello scandalo Lava jato che falcidiavano le cupole politiche di tutti i partiti misero in panico coloro che avevano scheletri negli armadi.
Quando apparve chiaro che Roussef non era disponibile ad insabbiare le indagini, si produsse dietro le quinte la fine anticipata del suo mandato, destituendola per irregolarità contabili tutto sommato trascurabili ma utili ad hoc, al punto da poter ipotizzare un colpo di stato soft. La sommossa, pagata con favori in Parlamento, trasformò Temer in un presidente che non ha mai vinto una elezione e che, da alleato del centrosinistra, si trasformò in acerrimo nemico del progetto politico che lo condusse al potere. La trama oscura celata dietro l’impeachment di Rousseff, apparve con chiarezza fin dai primi momenti. Una decina di ministri e figure del governo di Temer dovettero dimettersi per lo scandalo di registrazioni in cui ammettevano l’intenzione di neutralizzare le indagini dei magistrati. Vari altri ministri si sono dimessi invischiati in casi di corruzione. Quello di Temer è stato, dopo la dittatura, il governo meno popolare della storia brasiliana, avvolto da un clima di tradimento e di illegittimità e di sospetti che ora prendono forma, quasi seguendo un copione di Shakespeare.
Nel frattempo, però, il cambio politico a 180 gradi del Brasile ha restaurato le politiche neoliberiste. Nuovamente crescono il numero dei poveri e le disuguaglianze. Pur essendo affine a Temer in quanto alla concezione liberista, il presidente Jair Bolsonaro ha già preso le distanze dall’ex presidente che dovrà vedersela con la giustizia. La lotta contro la corruzione è stata infatti uno dei cavalli di battaglia dell’attuale presidente.
Ma credere che basterà una raffica di condanne, pur se contro figure “eccellenti”, per condurre in porto una riforma morale in questo Paese-continente è un’illusione. La corruzione è ancora estesa e avvolge i gangli dello Stato e della società. I sondaggi continuano a segnalare che la maggioranza della popolazione preferisce alla democrazia il benessere e la sicurezza, senza tener conto che minando i valori democratici si mette un’ipoteca su quegli stessi obiettivi, perché si accetta che siano raggiunti in qualsiasi modo. Il primo passo per corrodere la costituzione morale di un popolo consiste precisamente nel divorzio tra mezzi e fini.