Manet torna a Venezia
1853 – 1857. Manet visita l’Italia, dopo aver studiato la pittura nostrana al Louvre. Firenze, certo, ma pure Venezia. E Venezia vuol dire Tintoretto e Tiziano, oltre a Lotto, Carpaccio, Giorgione, Veronese e Tiepolo.
Logico che un pittore che si è ispirato all’arte veneta così a lungo, torni nella città lagunare. E in modo dirompente. Basta il confronto tra la Venere d’Urbino di Tiziano e la sua Olympia del 1863 per scatenare una ridda di emozioni, di riflessioni. Sono due mondi lontanissimi, specchio di una evoluzione(o involuzione?) dell’uomo nella visione del corpo, sconcertante. E’ evidente che Manet si è ispirato alla tela tizianesca: si tratta sempre di una cortigiana stesa su un letto sfatto, che ci guarda. In Tiziano, siamo in un interno arioso, estivo, con un cagnolino accucciato tra le lenzuola ed una serva che estrae dal cassone un vestito. In Manet la ragazza sdraiata sul letto ha vicino una fantesca nera che le porge un mazzo di fiori, dono di qualche ammiratore. Il colore di Tiziano è luminoso, quello di Manet gelido. La ragazza tizianesca ci guarda sorridente e maliziosa, felice di esibirsi, libera e felice come la vita. Olympia è triste. Si mostra ma il suo sguardo è distante, freddo e amaro. Non è felice. In Tiziano c’è l’amore nella sua fisicità, in Manet una sensualità raggelata dall’abitudine.
L’uomo rinascimentale succhia la vita, l’uomo moderno la prende ma non la gusta veramente. C’è da una parte la schietta gioia di vivere, dall’altra una tristezza esistenziale. Il colore di Tiziano è fragrante, focoso, quello di Manet splende nelle macchie di bianco e nello stupendo mazzo di fiori, col gatto che rizza la coda, nero.
Non basta. Manet rivisita il Concerto campestre di Tiziano e crea il celebre – e scandaloso all’epoca – Déjeuner sur l’herbe: quattro giovani in un prato, in abiti contemporanei con la modella che ci guarda, sfacciatamente. L’idillio giorgionesco di Tiziano, allusivo a musica e ad amore, qui è freddato e desacralizzato da due coppie giovanili che si liberano dagli schemi borghesi, realisticamente, senza alcun simbolo né alcun lirismo. Se la pennellata di Tiziano è densa, ampia e sfumata, quella di Manet è a grandi macchie, ombrata, dolcemente chiaroscurata.
Ma a Venezia c’è dell’altro. Manet è tornato col ragazzino de Le fifre del 1866, bellissima tela in rosso bianco e nero del bambino che suona i l piffero, arguto ritratto dell’infanzia scanzonata, così come la tela de Le Grand Canal à Venise è u n trionfo luminoso di onde frazionate dalla luce, scottanti sotto un immenso sole ed un cielo azzurro.
Val la pena vederla questa piccola mostra di capolavori. Si vedrà quanto la magia del colore veneto abbia “impressionato” Manet e quanto di questo mondo di sogno sia entrato nella pittura dell’artista francese.
Manet. Ritorno a Venezia. Palazzo Ducale. Fino al 18/8 (catalogo Skira)