Mamme noPfas, le sentinelle del mattino per il bene comune
I movimenti territoriali sono le sentinelle del mattino a protezione di quei beni comuni fondamentali che sono la salute e l’ambiente. Essi rappresentano l’ultima opposizione possibile ad uno sviluppo senza alcun limite, frutto di una tecnologia che ha assunto una velocità tale da divenire difficilmente controllabile e prevedibile nei suoi effetti anche a breve termine.
Nel tempo, con la concentrazione dei profitti ed alla socializzazione dei costi umani e ambientali, ha rischiato di essere prevalente una certa idea di impresa e di prassi sindacale basata sul baratto tra la difesa del lavoro, considerato un valore in sé, e la salute dei lavoratori e la cura dell’ambiente. Come se i tre beni da tutelare, lavoro-salute-ambiente, fossero incompatibili.
La velocità, unita alla voracità, si trasforma in una miscela esplosiva che seduce in maniera impressionante il consumismo dei singoli e sfrutta la disperazione dei lavoratori, soprattutto in un periodo in cui il lavoro è sempre più sotto pressione per una continua erosione dei diritti.
In questo contesto si pone il ruolo, troppe volte assente, della politica e delle istituzioni.
L’agire dei movimenti del NO non può essere etichettato comodamente in senso spregiativo dai detrattori come NIMBY, Not In My Back Yard (non nel mio giardino ma in qualsiasi altra parte). Anzi, ci troviamo di fronte a portatori di soluzioni reali e concrete che non vogliono scaricare il problema in Paesi lontani. I movimenti si pongono l’obiettivo di proporre soluzioni e di condividerle, come bene comune, con la comunità internazionale.
Esempio di questo percorso dei NO che fanno crescere, è quello delle “Mamme NO-PFAS”, come si può leggere nell’intervista rilasciata da una mamma di questo movimento, Anna Maria Panarotto.
Cosa sono le sostanze Perfluoroalchiliche (PFAS) e perché si trovano nell’acqua potabile di 30 comuni tra le province di Vicenza, Verona e Padova?
Le sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) sono composti chimici che non esistono in natura ma sono stati prodotti dall’uomo con una combinazione di atomi di fluoro e carbonio. Il risultato è una sostanza inodore ed insapore che serve all’industria per impermeabilizzare gli oggetti anche di uso quotidiano come le carte forno, le padelle antiaderenti, le pellicole e molto altro.
Queste sostanze chimiche, PFAS, sono: bioaccumulabili, si accumulano nei tessuti del nostro corpo; persistenti, una volta entrate nel corpo umano attraverso l’acqua o gli alimenti non vengono eliminate perché dopo essere state filtrate dai reni vengono riassorbite e rimesse in circolo; tossiche, sono veleni, interferenti endocrini, nel corpo umano si sostituiscono agli ormoni.
Dal 1962 a Trissino, nel vicentino, un’industria chimica, ora Miteni, si è insediata nella zona di ricarica della più grande falda acquifera italiana per effettuare la produzione di sostanze impermeabilizzanti usate in larga scala dall’industria. Lo sversamento continuo di Pfas effettuato da allora nel vicino torrente Poscola e nel terreno, ha inquinato completamente la falda acquifera rendendo inutilizzabili gli acquedotti di trenta comuni con 350.000 abitanti, i pozzi e le acque di superficie delle tre provincie a forte vocazione agricola.
Cosa è successo nel 2013, dopo la pubblicazione di uno studio commissionato dal Ministero dell’Ambiente all’Istituto di Ricerca Sulle Acque (IRSA) del CNR?
Il 2013 è un anno importante perché vengono pubblicati i risultati di due anni di studi e ricerche sui fiumi italiani da parte dell’IRSA e viene dichiarato che nel fiume Po’ ci sono alte concentrazione di Pfas derivanti dagli scarichi industriali del distretto Industriale di Valdagno e Valle del Chiampo dove è localizzato lo stabilimento Miteni. A seguito di questa indagine l’Istituto Superiore di Sanità ha chiesto alla Regione Veneto di installare dei filtri per l’abbattimento degli inquinanti nell’acqua potabile ed ha pure chiesto di mettere in atto uno studio epidemiologico. I filtri sono stati installati mentre lo studio epidemiologico non è mai iniziato. Sono stati fissati degli standard di performance insufficienti a tutelare i cittadini da esposizione a Pfas, come messo in evidenza dai risultati del piano di sorveglianza messo in atto nel 2017 dalla Regione Veneto. Tutti abbiamo alte concentrazioni di Pfas nel sangue.
Come e perché è nato il movimento delle “Mamme NO PFAS”?
Nel 2017, inizia un piano di sorveglianza sanitaria nella popolazione della zona contaminata [zona rossa, n.d.r.]. Quattro mamme di Lonigo sono interessate perché i loro figli vengono chiamati e dopo un po’ si vedono recapitare il risultato delle analisi che attestano una presenza di Pfas nel sangue da 100 a 500 volte superiore ai valori minimi di riferimento. La rabbia e lo sgomento è grande tanto che istintivamente si cercano per condividere i sentimenti che le invadono e così decidono di non fermarsi alla rabbia ma di agire per fare qualcosa. Anzitutto si deve capire bene cosa è accaduto quindi inizia una fase di studio di tutto ciò che riguarda i Pfas, delle analisi fatte e delle relazioni tecniche in particolare quella effettuata dal NOE che ci ha messo sulla strada giusta per capire che si trattava di un vero disastro ambientale. I documenti acquisiti con accessi agli atti sono moltissimi e si passano notti a studiare anche con l’aiuto di esperti. Terminata questa fase di studio che ci ha fatto capire la portata del disastro, abbiamo iniziato ad incontrare sindaci, presidenti di regione, ministri ed istituzioni per chiedere conto di come era potuto accadere un disastro per 30 anni senza che nessuno lo fermasse.
Ad ottobre del 2017 abbiamo organizzato a Lonigo, assieme al nostro sindaco, una grande manifestazione alla quale hanno aderito 120 comuni dei quali 50 erano presenti assieme a diecimila persone e due presidenti di provincia. In questa occasione la stampa ci ha chiamate “Mamme no Pfas”.
Come avete contribuito a rendere consapevole la popolazione coinvolta del rischio legato all’inquinamento delle falde acquifere da PFAS?
La nostra azione è stata di forte impatto mediatico perché ci siamo unite in tante e siamo scese in tutte le piazze delle zone rosse dove abbiamo incontrato anche i sindaci proprio per sensibilizzare al problema che noi stesse avevamo sottovalutato perché eravamo state rassicurate dalle istituzioni. Ad oggi abbiamo tenuto oltre 400 incontri pubblici nei quali abbiamo spiegato cosa è accaduto proprio per creare consapevolezza nella cittadinanza. Partecipiamo anche ad un progetto per le scuole superiori realizzato da tutti i gruppi che si occupano di Pfas per creare consapevolezza nei ragazzi. Possiamo dire che dove si parla di Pfas le mamme ci sono!
Cosa chiedete alla politica regionale e nazionale per superare l’emergenza?
Sono quasi dieci anni che viviamo in emergenza e sono state adottate misure forti come il filtraggio dell’acqua e la realizzazione di tre nuovi acquedotti che andranno a sostituire l’acqua della falda. Noi vogliamo passare dall’emergenza alla precauzione. Chiediamo a gran voce che ciò che è accaduto in Veneto non debba accadere più in nessun luogo e per questo bisogna adottare misure di prevenzione del rischio. Alla Regione chiediamo di effettuare la bonifica del sito perché la fabbrica, anche se è chiusa, continua a sversare in falda gli inquinanti accumulati negli anni in quantità elevate. Al Ministero chiediamo di porre limiti vicino allo zero per gli scarichi di Pfas. È incredibile che ad oggi non vi sia ancora una legge nazionale che regoli questi scarichi. Il Ministero ha predisposto un collegato ambientale, norme che vanno ad integrare quelle in essere, dove sono stati stabiliti limiti di Pfas elevati come quelli che abbiamo nei nostri pozzi che la regione ci ha fatto chiudere. Se passano questi limiti è come se venisse legalizzato l’inquinamento che abbiamo nelle nostre acque. Per questo la bonifica ed i limiti nazionali sono due punti fondamentali sui quali non intendiamo arretrare.
Cosa vi aspettate dai filoni di indagine aperti dalla procura di Vicenza?
Per ottenere l’avvio del processo, due anni fa abbiamo fatto cinque giorni di presidio davanti al tribunale di Vicenza per chiedere “Procura aiutaci” inteso come “indaga su ciò che è accaduto”. Dopo varie udienze preliminari il 1° luglio partirà il processo penale con 15 manager indagati per disastro innominato. Del gruppo mamme, ci siamo costituite, come parte civile, in oltre 150 e vogliamo così rappresentare i cittadini comuni che hanno subito uno stravolgimento della loro vita. Ci aspettiamo che il processo faccia chiarezza su tutti gli anni nei quali si è inquinato sapendo di farlo e sulle responsabilità di tutti, enti e politica, che non hanno fatto nulla per fermare la Miteni.
Cosa succederà se non si interviene per effettuare le bonifiche e costruire una conversione ecologica?
Bonificare significa risanare, recuperare. Quando è acclamato che vi è stato un danno bisogna bonificare perché altrimenti si lascia una ferita aperta e l’Italia è piena di ferite aperte incancrenite nel tempo. Nel caso dell’inquinamento da Pfas si rende urgente ed indispensabile bonificare per evitare il continuo sversamento che sta avvenendo per l’accumulo di inquinanti sotto gli impianti della ex Miteni. In questi anni abbiamo visto tante situazioni di inquinamento in Italia lasciate andare nel tempo senza bonifica. È come mettere una benda ad una ferita e non cambiarla più. Non si sana e non si guarisce. L’Italia è piena di bende lasciate lì ad incancrenire. Bisogna cambiare visione delle cose ed iniziare a prendersi cura sul serio del nostro ambiente. Questa è conversione ecologica. Spesso le bonifiche non vengono fatte perché costano molto e sono improduttive. Noi possiamo dimostrare che la spesa più improduttiva e con enormi costi a carico dei cittadini, è data dall’inquinamento. Dato che si parla sempre di economia e di PIL, facciamo i conti, quanto ci costa l’inquinamento? Vedremo che, oltre a tutto il resto, inquinare non conviene, ma conviene prevenire!
Quanto è importante per voi unire le vostre istanze di giustizia sociale e ambientale con le altre vertenze territoriali, come quella della Stop Solvay?
All’inizio noi mamme ci siamo impegnate per la salute dei nostri figli. Poi abbiamo capito che tutti erano nostri figli perché una mamma non ha confini nel volere il bene dell’altro. Nella nostra strada abbiamo incontrato tanti gruppi. Siamo state invitate in Abruzzo, a Taranto e, proprio lì, è nata l’idea di creare una rete che abbiamo chiamato “Mamme da Nord a Sud”, che oggi raggruppa 50 associazioni provenienti da tutta Italia. Abbiamo capito che è fondamentale unirci perché da sole non si fa nulla. Spesso facciamo l’esempio del branco di pesci che incontra il pescecane, se si è da soli ti mangia. Ma se si è uniti si ha la forza di fermarlo. L’unità ci rafforza e ci fa crescere nella condivisione, in quanto sentiamo nostra ogni ferita che viene condivisa nel gruppo. Con il Comitato Stop Solvay c’è stata una condivisione immediata perché a Spinetta Marengo si sta ripetendo ciò che è accaduto in Veneto, ma su scala molto più grande. La Miteni aveva 150 dipendenti, la Solvay oltre 1000. Non si chiede di chiudere la Solvay, ma che venga fatta una riconversione del settore che produce le sostanze inquinanti e di tutelare la salute dell’ambiente e del territorio. In questa zona non viene effettuato il monitoraggio della popolazione, nonostante siano stati trovati i Pfas nella falda e anche nel Po.
Cosa vi ha donato l’esperienza vissuta finora?
Una nuova consapevolezza della forza e del ruolo della cittadinanza attiva. Eravamo tutte mamme responsabili, attente e rispettose dell’ambiente, ma questa vicenda ci ha interrogato su come sia potuto accadere che un inquinamento così grande ci sia passato sopra le teste senza che ce ne accorgessimo. Siamo partite assumendoci la nostra parte di responsabilità di cittadine che non erano state sufficientemente attente e partecipi, che si erano fidate senza approfondire. Abbiamo preso consapevolezza di cosa significa essere cittadini attenti ed attivi, che non si fermano all’indignazione ma che sanno fare le scelte conseguenti. L’industria e la grande distribuzione ci offrono tanti prodotti, ma non tutti sono sani per diversi motivi: per produrli si è inquinato; si è sfruttano il lavoro nero e/o minorile; sono prodotti usa e getta che diventano subito rifiuto non riciclabile. I cittadini hanno una grossa responsabilità, perché con le loro scelte possono indirizzare i mercati, certo non da soli, ma facendo opinione. Un aspetto che abbiamo potuto constatare nella nostra esperienza è stata la consapevolezza del potenziale femminile e di mamme. Fin dall’inizio e dai primi incontri con le autorità ci siamo dette “noi andiamo come mamme che parlano ai loro figli”. La consapevolezza che la mamma parla per il bene e lo fa con fermezza e determinazione, ma anche tacendo ed aspettando, ammonendo e cercando il dialogo, ci ha fatto aprire tutte le porte e possiamo dire che siamo state accolte anche dove altri non erano arrivati ed abbiamo trovato un ascolto attento assieme a molta considerazione.
Due brevi riflessioni finali.
I finanziamenti previsti dal Next Generation EU.
Il loro utilizzo può dare una spinta verso la Transizione Ecologica finanziando le bonifiche e sostenendo le imprese che producono riducendo sensibilmente la propria impronta ecologica secondo il principio Riusa, Riduci, Ricicla.
Principio di precauzione e principio responsabilità.
Abitualmente sono visti come un freno allo sviluppo economico. Ma un documento dell’Agenzia Europea dell’Ambiente, “Late lessons from early warnings: the precautionary principle 1896–2000”, racconta meglio di mille definizioni cos’è il principio precauzione:
Nel 1898 Lucy Deane, una ispettrice del lavoro inglese, nel suo rapporto osservò che i dannosi effetti della polvere di asbesto erano stati indagati anche in un esame microscopico dell’Ispettorato Medico Inglese. Si manifestò chiaramente la natura tagliente come un vetro e dentellata delle particelle e, se gli si consentisse di sollevarsi e rimanere sospese in una stanza, avrebbero avuto degli effetti pericolosi più di quanto si possa prevedere (t.d.a.).
Dopo 100 anni di utilizzo, prima in Gran Bretagna e, successivamente nell’Unione Europea, si è deciso di vietarne l’uso perché cancerogeno. Tutto questo poteva essere fermato già nel 1898. Ecco a cosa servono i NO. Sono in grado di promuovere uno sviluppo integrale, un atteggiamento maturo verso la tecnologia, partendo dalla base che tutto è connesso.
Estrato da Dossier Conversione ecologica
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