Mamme in azienda un vero affare
Non è vero che le donne lavoratrici e con figli sono un peso economico. Dati alla mano risultano essere una risorsa per l’intero Paese.
È lunedì mattina e in redazione vedo un collega particolarmente “provato”. «Tutto bene?», gli chiedo. «Guarda, sono sfinito. Mia moglie il week end è stata fuori per un convegno e ho dovuto badare ai due bambini da solo. Non ho avuto un attimo di tregua, né di giorno, né di notte ed è successo di tutto. Pensa che avevo comprato un giornale, ma non ho fatto in tempo neanche ad aprirlo. Solo al rientro della mamma domenica pomeriggio ho potuto finalmente rilassarmi e dormire tre ore. Una cosa l’ho capita, lo ammetto: se altre volte riesco a leggere il giornale è perché c’è qualcun altro che si occupa dei figli e della casa».
Vita ad incastro
«La mia vita di donna è incastrata al minuto. Tutto sta nell’organizzazione: mi sveglio, mi lavo, mi vesto, poi sveglio, lavo e vesto le bimbe e giù per le scale. Quando arrivo all’asilo già buona parte della giornata mi sembra andata. Prendo il motorino e scappo al lavoro». Così comincia la sua giornata Roberta, giovane mamma di due bambine, laureata in Sociologia, un lavoro a tempo indeterminato alle Risorse umane delle Ferrovie dello Stato.
Arriva quindi in ufficio. «Lì, anche se il lavoro a volte appare convulso, trovo il mio spazio; spengo nel mio cervello il settore “famiglia” e mi butto a capofitto in quello che ho da fare».
Senza tregua? Sembra di no. «A volte riesco persino ad andare in palestra, appena esco dal lavoro, lasciando un’oretta in più le bimbe all’asilo: non mi sembra di togliere tempo a loro. Mi dico: “Serve a me per stare meglio, quindi serve anche a loro”. Poi finalmente di nuovo all’asilo e a casa, dove mi ributto a capofitto a fare la mamma, ma anche la moglie; sì perché un po’ di tempo la sera, io e mio marito ce lo ritagliamo, spegniamo la tv e ci raccontiamo come è andata la giornata».
Una vita impossibile? «Tutto sommato non è una vita drammatica, come mi raccontavano. Fare due (ma a volte anche tre o quattro) cose insieme mi aiuta ad essere più equilibrata e ad essere anche più me stessa, perché dentro di me c’è il desiderio di essere una buona mamma, ma anche di realizzarmi nel lavoro. Per questo ho studiato tanto. Ma il bello è poter contare anche sull’aiuto di mio marito».
Figli e lavoro
Conciliare vita familiare e vita lavorativa, un vero e proprio problema vissuto soprattutto dalle donne che molto spesso finiscono per essere costrette a scegliere tra essere madri o lavoratrici.
Come abbiamo visto l’approccio è diverso per un uomo o per una donna, anche se è ovvio che né il primo, né il secondo caso sono l’emblema dell’universo maschile e femminile. Ma sul fatto che la difficoltà riguardi le mamme più che i papà nessuno ha da obiettare.
Francesca, 34 anni, è un ingegnere, ha due figlie e da quattro mesi ne aspetta un terzo. Dopo la laurea fa alcune esperienze lavorative, ma niente di stabile. A un certo punto riceve una telefonata per un colloquio di lavoro presso un’azienda a cui aveva mandato il curriculum l’anno precedente. Sarebbe stato bellissimo se non fosse che nel frattempo si è accorta di essere incinta. «Proprio adesso – è stata la prima cosa che ha pensato, confida –. Dirò che non posso andare». Poi però in famiglia le ricordano: «Ma se tu per prima pensi in questo modo avvalori la tesi che una madre non possa lavorare. Se invece ti convinci che questo non sia un problema, ma che ci si può pure organizzare, allora dai all’altro la possibilità di prendere in considerazione la cosa».
Detto, fatto. «Mi presento esibendo il pancione (anche se non era ancora evidentissimo) e dico che do la mia disponibilità totale fino al momento in cui partorisco. Il curriculum è perfetto, si tratta proprio della figura professionale di cui hanno bisogno. La persona con cui parlo è sposata e capisce la mia situazione, ma al momento di decidere mi dice: “Ci sentiamo più avanti”, e segna sulla sua agenda la data della nascita del bambino».
E comunque è molto più accogliente di un altro dirigente che le aveva chiesto: «Lei ha già due figlie, quindi non pensa di averne ancora, vero?». «Beh, i figli se arrivano li prendiamo anche se non sono programmati, non è perché me lo dice lei che decido diversamente», aveva risposto. Ma l’amarezza non finisce qui. «So di mie colleghe – racconta – che hanno persino dovuto firmare una dichiarazione in cui si impegnavano a non avere figli. Non è legale, però succede».
Mai pensato di dedicarti solo alla famiglia o di cambiare professione? «Finché le bimbe erano piccole il desiderio di stare con loro era forte, però, con un solo stipendio, è difficile campare. In quanto ad un altro lavoro… sì, magari uno si ricicla, però che peccato aver fatto tanti studi impegnativi per niente!».
I provvedimenti necessari
Quella di Francesca non è una vicenda isolata, è evidente. E se trovare un lavoro è difficile, non lo è meno mantenerlo, una volta arrivati i figli. «Il 18 per cento delle mamme ha lasciato il lavoro dopo la prima gravidanza e non è stata una libera scelta – sottolinea Marina Piazza, sociologa e già presidente del comitato Pari opportunità della Presidenza del Consiglio –, quanto piuttosto il risultato della mancanza di servizi, dei pregiudizi che regnano nelle aziende, dell’organizzazione familiare e del fatto che gli uomini non condividono il lavoro di cura».
Nel nostro Paese, lo ricordiamo, la legislazione prevede la maternità obbligatoria, ossia il diritto per la donna di rimanere a casa per cinque mesi, cioè due mesi prima del parto e tre mesi dopo, oppure uno prima e quattro successivamente, e su questo pochi hanno da ridire. Quello che sarebbe da rivedere è il trattamento retributivo del congedo parentale. Attualmente la lavoratrice o il lavoratore possono astenersi dal lavoro fino al terzo anno di vita del bambino percependo un compenso pari al 30 per cento del proprio stipendio.
Dato, questo, che ci colloca nella seconda metà della classifica dei Paesi europei, in molti dei quali sono previsti più mesi di congedo e una maggiore retribuzione. In Scandinavia, ad esempio, durante il primo anno di congedo si ha diritto ad uno stipendio al 100 per cento. Forse non a caso lì la percentuale dei padri che vi ricorre è in continuo aumento, mentre in Italia il 40 per cento degli uomini pensa che spetti alle donne occuparsi dei figli. E poi c’è sempre la paura di venire penalizzati perché preferire la famiglia alla carriera…
Il Paese più all’avanguardia è la Francia, da sempre molto attenta a queste tematiche. Fra le misure adottate, ad esempio, uno speciale congedo per il terzo figlio che permette alle madri di sospendere il lavoro per un anno mantenendo una retribuzione quasi piena. E molti sono i finanziamenti destinati alla tutela dell’infanzia. Secondo dati Eurostat, le spese a sostegno della famiglia costituiscono in Francia il 2,6 del prodotto interno lordo (Pil), contro l’1,8 per cento del Regno unito e l’1 per cento dell’Italia. Non sarà un caso, allora, se il tasso di natalità dei nostri cugini d’Oltralpe nell’ultimo decennio è aumentato nonostante l’occupazione femminile raggiunga quota 60,4 per cento contro il nostro 47,2 per cento.
La maternità: costo o investimento?
Dunque non è vero che più le donne lavorano meno figli fanno, come non lo è il fatto che le mamme sono un peso economico per l’azienda. A supportare quest’ultima tesi uno studio della Bocconi che, dopo aver interpellato responsabili di risorse umane, dirigenti e madri lavoratrici, ha dimostrato come la maternità incida solo per lo 0,23 per cento sul costo del personale.
Sembrerebbe infatti che ogni giorno ci siano più assenze per malattia o permessi vari che per maternità. E, fatto curioso secondo la coordinatrice della ricerca, Simona Cuomo, «in realtà le imprese non sanno quanto pesa la maternità sui costi complessivi: si sa quanto costano le fotocopie, i post–it, i telefoni; ma nessuno prima aveva mai calcolato quanto costa una mamma».
Interessanti, poi, le stime della Banca d’Italia, secondo cui una crescita dell’occupazione femminile significherebbe un aumento del 7 per cento del Pil. E questo grazie al valore aggiunto delle donne rilevato da seri istituti di ricerca: l’attenzione alle persone, alle relazioni, la capacità di prevenire conflitti.
Secondo Chiara Bisconti, responsabile delle risorse umane di San Pellegrino-Nestlè, «far marciare insieme i bisogni delle mamme e quelli dell’azienda crea un circolo virtuoso: le donne che chiedono il part–time riescono a fare in sei ore quello che normalmente si fa in otto, con il risultato di un risparmio di costi». Meglio di così!
I risultati ci sono e suggeriscono di estendere certe soluzioni su vasta scala. Perché a guadagnarci sono tutti: le famiglie, anzitutto, ma anche le aziende, come abbiamo visto, e dunque l’intero Paese. Insomma, un vero affare.
Aurora Nicosia
Un percorso a ostacoli
“Conciliazione” è un termine che viene introdotto nei documenti ufficiali dell’Unione europea agli inizi degli anni Novanta. Con tale termine si intende la volontà di predisporre direttive, informative, raccomandazioni ai diversi Paesi affinché adottino misure in grado di salvaguardare la possibilità di conciliare la vita familiare con quella lavorativa alla luce dei diversi cambiamenti sociali, tipici dei nostri giorni.
Innanzitutto:
– le trasformazioni della famiglia che in Europa ha rapidamente mutato la propria struttura da multipla (ossia composta da più nuclei familiari) a nucleare (ossia composta da una sola coppia) o singola e monoparentale;
– le identità di genere delle donne e degli uomini che sono mutate rispetto al passato, superando gli stereotipi che legavano la sfera economico-sociale agli uomini e quella familiare e affettiva alle donne;
– i processi di urbanizzazione, che hanno favorito la frammentazione dei tempi di vita.
Un dato importante. Secondo l’Istat il numero delle donne che rinunciano al lavoro dopo la nascita di un figlio è in lieve diminuzione: nel 2003 si attestava al 20 per cento (ben una su cinque), oggi al 18 per cento; al 23,9 per cento delle madri non viene rinnovato il contratto, il 6,9 per cento viene licenziato, il 69,2 per cento si licenzia.
Alcuni problemi permangono tuttavia nel mondo del lavoro:
– il differenziale salariale, il fatto cioè che le donne a parità di livello e ruolo prendono uno stipendio inferiore agli uomini a causa delle differenze esistenti sulle voci accessorie salariali (straordinario, trasferte, premi, etc.);
– il cosiddetto “tetto di cristallo”, ovvero la scarsa presenza delle donne nei ruoli di vertice del mondo del lavoro, ma la loro maggiore presenza nei ruoli di staff;
– gli stereotipi che legano la donna manager alla mascolinizzazione degli atteggiamenti e alla rinuncia alla famiglia e agli affetti.
Silvia Cataldi
Europa a confronto
Nel nostro continente possiamo individuare cinque tipologie di politica familiare.
Modello scandinavo: misure principali sono la legislazione sui congedi genitoriali, i congedi per la cura del figlio malato e tantissimi servizi per la prima infanzia. Il governo cerca di creare le condizioni che permettano alle donne di conciliare famiglia e lavoro e ai padri di avere un ruolo maggiore nella cura dei figli.
Modello tedesco: le famiglie vengono sostenute attraverso servizi in denaro per compensare il costo economico dei figli. Permangono gli ostacoli all’impiego delle donne e questo evidenzia l’orientamento a incoraggiare la permanenza a casa delle madri in modo da poter accudire i figli.
Modello anglosassone: qui la famiglia viene considerata come una sfera privata in cui lo Stato non deve intervenire, per cui lo fa solo in caso di alti livelli di povertà. La finalità principale delle politiche è di rendere la famiglia autonoma e autosufficiente dal punto di vista economico.
Modello francese: la principale finalità è quella del sostegno alla natalità, come troviamo scritto nel Codice della famiglia del 1939. Il tipo di intervento riguarda sostegno economico per le famiglie numerose, servizi pubblici per la cura dei bambini e forme di sostegno alla genitorialità. Supportare le famiglie, considerate cellule fondamentali della società, è sentito come una responsabilità del governo.
Modello mediterraneo: alla famiglia si pensa come ad un’importante istituzione della società, le cui funzioni non possono essere svolte da altre agenzie. Le politiche familiari, però, si esplicano per lo più in assegni per i figli e in misure per l’integrazione della donna nel mondo del lavoro, anche se è radicata una divisione di ruoli di tipo tradizionale.