Mamma ottocento volte

Una delle ultime interviste a Lucia Apicella: un'umile donna di Cava dei Tirreni (frazione Sant’Arcangelo) che con le sue mani ha dato sepoltura a centinaia di soldati d'ogni Paese, caduti nell'ultima guerra sui monti del Salernitano
mamma lucia

Minuta nel suo vestito nero, occhi penetranti su un volto scarno, i capelli candidi raccolti a crocchia sulla nuca, un plaid gettato sulle ginocchia, siede davanti ad un braciere d’altri tempi, che dovrebbe dare un po’ di calore alla disadorna e modestissima stanzetta. «Pace e bene!», augura gaiamente anche a me, come a tanti che, quasi in pellegrinaggio, vengono a trovarla qui a Cava dei Tirreni, per sentire e risentire una storia sempre uguale e sempre nuova: la storia di Mamma Lucia, la popolana salernitana conosciuta anche oltre i confini del nostro Paese per aver dato sepoltura a ottocento soldati morti in guerra.

 

La vicenda che lei si appresta a raccontarmi con semplicità, senza chiedere chi io sia o cosa vengo a fare, sembra una di quelle favole che le nonne, una volta, narravano ai loro nipotini, tanto appare straordinaria e carica di una sua struggente poesia. Questa però è una favola vera, che ha commosso e fatto pensare migliaia di persone. «Come è stato, Mamma Lucia?». Una gioia a sentirlo, quel suo dialetto così dolce e umano, intraducibile, condito di sentenze d’antica saggezza e degli appellativi più affettuosi: «tesoro»… «figlio bello»! Figlio… Una che è stata mamma ottocento volte, riesce a vedere in ogni uomo solo un figlio, qualcuno cioè che è stato generato dall’amore spinto fino al sacrificio.

 

Erano gli anni dell’immediato dopoguerra. Dopo lo sbarco degli "alleati", sui rilievi aspri e deserti attorno a Cava, si erano susseguiti violentissimi scontri. Centinaia di soldati morti erano stati sepolti alla meglio in improvvisati cimiteri segnati appena da rozze croci; molti altri giacevano impietosamente al sole e alla pioggia fra le macchie, lungo le scarpate, nei burroncelli. Ora che tutto era finito, appariva lampante l’assurdità di quella carneficina, nella quale erano state sacrificate tante giovani vite. Assurda soprattutto per chi era madre e sapeva quanto costa mettere al mondo una vita, e poi nutrirla, sostenerla…

 

Così per Lucia Apicella, una semplice donna di Cava, malgrado la guerra avesse risparmiato i familiari, per lei il dramma continuava in quei figli di mamma caduti lontani dalle proprie case, ma così vicini al suo cuore, le cui misere spoglie – così le dicevano – affioravano qua e là tra sassi e sterpaglie, alla mercé dei cani o addirittura trastullo dei monelli.

 

Proprio lì, su quel Monte Castello, che sovrastava la cittadina con la sua mole piramidale, aveva saputo che erano venute alla luce dodici salme da un cimiterino di guerra in sfacelo. E nessuno che si curasse di loro! Le atrocità viste e subite, la miseria, sembravano aver prosciugato ogni residuo di pietà dai cuori. Per di più, le montagne erano disseminate di proiettili e di bombe inesplose, e ciò bastava perché nessuno si azzardasse a muovere un dito. Ma lei, Mamma Lucia, ci pensava di continuo.

 

Poi, una notte, un sogno che parve additarle una missione. Le sembrava di trovarsi sulla montagna vicino a Cava. Lì, otto croci bianche, e sotto otto splendidi giovani che si levarono in piedi tra le zolle. Lucia si ritrasse impaurita, poi si fece coraggio e chiese loro da dove venissero. Da tante nazioni diverse, le risposero, e il sogno si chiuse con una accorata implorazione che Lucia mai più avrebbe scordata: «Riportaci alle nostre mamme!».

 

Simile ad un personaggio biblico, che si fa guidare da sogni premonitori, incurante delle incomprensioni incontrate all’inizio tra i parenti e i suoi concittadini («Ai vivi bisogna pensare, non ai morti!»), Mamma Lucia cominciò a frugare i monti vicini in cerca dei suoi figli. Ai pericoli degli ordigni inesplosi non ci pensava nemmeno. Dove era possibile, si recava lassù su una carretta o a dorso di mulo, se non erano ore e ore di marcia per sentieri disagevoli, al gelo e sotto la canicola.

 

Un giovane, a cui lei dava qualche soldo, cominciava a zappare, poi lei proseguiva lo scavo con le sue dita ossute. Delicatamente ricomponeva quei resti, spesso dilaniati dalle bombe o sparsi qua e là dai cani, li puliva, li lavava per poi deporli in tante cassette di zinco. E durante l’opera pietosa, lacrime d’amore e di tenerezza, e quindi pacifiche, scorrevano su quelle ossa, su quella terra ancora rossa di sangue, quasi a voler purificare ciò che la guerra aveva contaminato, a riconsacrare l’immagine dell’uomo sconsacrata dall’odio.

 

Italiani, tedeschi, americani, marocchini, polacchi: a lei non importava se fossero amici o nemici. «Erano figli ‘e mamma, morti lontano da casa. Adesso avevano trovato in me un’altra mamma. Loro sono morti – continua Mamma Lucia come inseguendo una visione –, ma io sono morta assai più di loro… a forza di piangere».

 

Poi ridiscendeva a Cava portandosi dietro quei poveri resti e poche reliquie da restituire caso mai ai familiari: brandelli di divisa, fibbie, qualche lettera ingiallita… I primi li nascose nel campanile della cattedrale. Poi le venne affidata una chiesa sconsacrata, San Giacomo. Lì accatastava le piccole casse di zinco.

 

Quando la salma era identificabile per la piastrina, ogni figlio ritrovava il suo nome: Franz, Stefano, Charles, Karim, Josef, Mario, Willy. «Non potevo avvertire la sua mamma. Pregavo io per lui, e come me pregavano mio marito, i miei figli, i miei nipotini (ormai me li ero conquistati tutti). Rinunciavo a tutto quello che potevo per raggranellare i soldi per queste cassette. Ho persino vuotato della lana i materassi di casa. Di notte, mentre mio marito e i miei figli dormivano, la filavo di nascosto e poi la vendevo…».

 

Era diventata familiare la figura di quella strana donnetta che si ostinava a «pensare ai morti», tanto che venivano a cercarla anche da lontano, le telefonavano oppure le scrivevano per segnalarle i posti dove affioravano ossa insepolte. E lei non diceva mai no. Si stringeva il suo fazzoletto sulla testa, lo scialle sulle spalle, e andava dove la chiamavano.

 

Più di tutto la faceva soffrire la durezza di cuore di qualche contadino, che non voleva farla scavare per non guastare le piantagioni di patate. «Capite? Davano più importanza a quattro patanelle che a chi era sepolto là sotto. Non c’era amore, non c’era rispetto! Io però gliele pagavo e loro mi lasciavano fare».

 

Ora la missione di Mamma Lucia è compiuta. I suoi ottocento figli riposano al cimitero militare di Montecassino. Non potrà più salutarli, mettere un fiore sulla loro tomba: l’età avanzata non glielo consente. Spesso sogna di loro, ha il loro nome sulle labbra, come se li avesse cresciuti tutti lei.

 

Fra i più cari, Franz. Nella sua giubba aveva trovato una sua fotografia e un doppio nastro bianco, frangiato d’oro, dove, in gotico germanico, era segnata questa frase: «Dai genitori a nostro figlio, benedizione della mamma». «Aveva diciott’anni ed era bello!», sorride mestamente Mamma Lucia. E aggiunge: «Ora che sono vecchia, presto andrò a conoscerli tutti di persona…». Mi piace immaginarla scortata in cielo dai suoi figli, con gli onori militari.

 

«Chi vi ha dato questa forza, Mamma Lucia?». «È stato Isso (Lui)», esclama con vivacità, indicando una oleografia del Sacro Cuore su una parete costellata di immagini sacre. «E la morte, non vi fa paura?». Mi guarda sorpresa, come se avessi fatto una domanda inopportuna. «La morte? Non fa paura, è bella la morte. È dolore, sì, ma è una cosa buona, luminosa… come un sole bianco».

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