Tutto il male del mondo

A Nairobi, in Kenya, un ragazzo o una ragazza di 20 anni può rispondere all’attraente annuncio di lavoro di una famosa multinazionale di Internet, per poi scoprire che l’attività consiste nell’esaminare ogni giorno migliaia di filmati contenenti tutta la violenza, gli stupri, la pedopornografia, la stupidità, gli orrori che circolano in Rete. Il lavoro consiste nel classificare i filmati, scartando quelli più violenti, in modo da evitare che circolino su Facebook e altri social.
Un incubo senza fine, che lascia i ragazzi straniati, esausti, increduli che l’umanità possa arrivare a tanto. Il primo giorno si vomita di fronte a tanta bestialità, poi capita anche che ci si abitui: «Diventa quasi una specie di dipendenza» (Internazionale 16/6/2023). Un gruppo di questi ragazzi ha fatto causa a Meta (la multinazionale di Mark Zuckerberg) per violazione dei diritti umani e licenziamento illegittimo. Azioni legali verso altre aziende, in altri Paesi, riguardano denunce per stress post-traumatico, salute mentale compromessa e continua necessità di antidepressivi.
Il fattore umano
Situazioni come queste sono ormai diffuse nel mondo. Dall’India alla California, aumenta il numero di “schiavi digitali”, migliaia di esseri umani al servizio di una tecnologia incapace di capire concetti come brutto o bello, giusto o sbagliato, fragilità o compassione. La cosiddetta Intelligenza Artificiale (IA) è “stupida”, nel senso che non capisce quello che fa, non ha sentimenti o senso morale. Quindi c’è (ancora) bisogno di umani (gli “schiavi digitali”, appunto) per classificare e dare un senso ai dati. Il motivo è che noi umani quando parliamo, scriviamo, fotografiamo o giriamo video, siamo capaci di sfumature, sottigliezze, doppi sensi incomprensibili anche al più sofisticato programma di IA. Quindi, nonostante i filtri automatici, una gran quantità di spazzatura continua a circolare in Rete, spesso rilanciata proprio dai programmi che dovrebbero filtrarla.
Le colpe
Si discute sulle responsabilità di social, IA, aziende, governi. Sicuramente, i programmi messi a punto dalle società che gestiscono i social “rinforzano” qualsiasi tendenza negativa, pur di aumentare i clic e la raccolta di dati sugli utenti, quindi la pubblicità. Ma diventa sempre più facile anche per il singolo utente moltiplicare i messaggi negativi riempiendo la Rete di “schifezze”. Per non parlare dei governi, in corsa per dominare questa tecnologia che facilita il controllo dei cittadini. Due libri tra tanti tirano le fila della situazione.
Abolire Internet?
Jonathan Crary (Terra bruciata, Meltemi 2023) sbatte in faccia al lettore come siamo ridotti da quando c’è Internet: frantumazione sociale, depoliticizzazione, liquidazione delle culture regionali, scomparsa di tutto quanto è durevole e richiede impegno condiviso. «Molte persone intuiscono quotidianamente in modo viscerale l’immiserimento delle loro vite», ma sembrano incapaci di reagire. Il mondo digitale è perfettamente funzionale al capitalismo trionfante, indifferente alle disuguaglianze e ai disastri ambientali che provoca. Abbiamo perso il gusto della comunità e del bene comune. Se vogliamo cambiare tutto questo, dobbiamo interrompere «il nostro isolamento digitale, riscoprire i bisogni collettivi», resistere all’imbarbarimento crescente, alla crudeltà e all’odio che «traboccano dall’online». Coscienti che l’attivismo solo online è inutile. Bisogna invece scendere in piazza, svegliarci dall’intorpidimento digitale, eliminare Internet, spazzarla via per tornare a rapporti umani veri e diretti, a lotte non mediate dalla tecnologia. È possibile fare a meno di Internet? Secondo Crary sì, è l’unica via per salvarci.
L’epoca senza carne
Adriano Pessina (L’essere altrove, Mimesis 2023) arriva, per altra via, a risultati simili. «I tempi delle macchine sono sempre più veloci dei nostri», cerchiamo di reagire velocemente agli stimoli, senza possibilità di riflettere, elaborare e apprendere. «Ricordare, per l’essere umano, significa sempre selezionare. Ma la Rete non ricorda, accumula, fissa implacabilmente anche quello che vorremmo cancellare e non segue, così, l’evoluzione delle nostre esperienze». In Internet per essere bisogna “apparire”, la verità non interessa, solo ciò che è condiviso in Rete esiste. Peccato che ogni sguardo umano sia invece connesso al corpo, al gesto, alla postura, alla parola: in Internet tutto questo non c‘è. Il nostro corpo, la nostra carne, la nostra fragilità non ci sono. Ma se l’altro non condivide il mio stesso luogo e il mio stesso tempo, come posso incontrarlo veramente? Nelle relazioni autentiche tra persone, il corpo è il grande mediatore, mentre nei social «gli altri sono puramente immaginari, ipotetici». «Nessuno è come “appare”»! Per questo in Internet spariscono la vergogna e il pudore, mentre aumenta «la nostalgia della presenza reale». La Rete è l’oracolo che fornisce le risposte, mentre l’umano, con le sue limitate capacità, diventa «insignificante e trascurabile», quasi si vergogna davanti alla potenza e alla perfezione asettica delle macchine. Dunque, per Pessina, la pretesa di tanti ottimisti «di umanizzare la Rete, di riempirla di significati etici e religiosi, di trasformarla in veicolo di miglioramento dei rapporti umani», è destinata al fallimento.
Giovani
Che dire? Continuo a pensare che Internet sia importante per il genere umano: permette ai popoli del mondo di sentirsi e agire come un’unica umanità, con un solo destino. Ha lo stesso valore che ha il sistema nervoso nello sviluppo del feto. L’IA ci costringe ad interrogarci su cosa significhi “umano”. Mentre pensiamo a come volgerla al bene, conviene forse ascoltare di più i giovani (ancora capaci di stupore e immaginazione): aiutiamoli a ripulire Internet e a bilanciare digitale e reale.
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