«Con la malattia ho trovato il vero senso della vita»
Una nota dell’agenzia Agi, battuta alle 9:36 di giovedì scorso, 26 settembre, titolava: «”Ne è valsa la pena”, dice chi si è battuto per la sentenza sul suicidio assistito». Con il pronunciamento della Corte Costituzionale sulla questione del suicidio assistito si è chiuso il sipario su una pagina di storia, si è posta una pietra miliare su un dibattito etico-morale che perdurava da tempo. Ma mi chiedo: chi ne è stato il principale attore? La legge o l’uomo?
Non posso esimermi dall’esprimere un giudizio. La questione mi chiama direttamente in causa. Sono un malato di SLA, ufficialmente dal 13 giugno 2016, giorno in cui ho avuto la diagnosi certa della mia patologia. In questo lasso di tempo sono stato ricoverato sei volte, per un totale di ottanta giorni di degenza ospedaliera, durante i quali ho anche rischiato due volte di morire. La mia vita non è appesa a un filo, ma a dei tubi che mi nutrono e mi fanno respirare.
«Ieri la Corte Costituzionale si è espressa sul caso di Marco Cappato, accusato – in base all’articolo 580 del codice penale – di avere aiutato a suicidarsi Fabiano Antoniani, più noto come dj Fabo. Che cosa è cambiato con questa sentenza?», leggo sul Post online.
L’istigazione o aiuto al suicidio è un reato previsto dal codice penale italiano. L’art. 580 recita così: «Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni».
Il problema fondamentale, a mio avviso, non è tanto se la sentenza abbia ha a che fare con l’eutanasia piuttosto che con il suicidio assistito, ma è quello di salvaguardare la dignità e l’umanità di ogni malato, sempre. Non si può negare ad alcuno il diritto di vivere una vita dignitosa. Il problema è a monte: come mai nessuno si chiede perché un uomo, qualsiasi uomo, affetto da una patologia neurodegenerativa, o altra fortemente invalidante, possa arrivare, al culmine della parabola della malattia, a trovarsi dentro un tunnel senza uscita che lo porta inevitabilmente alla disperazione?
È un problema fondamentale, che va affrontato subito, non appena una refertazione infausta apre un abisso nella vita di uomo. L’ammalato, lo posso dire con cognizione di causa, è lasciato solo. Le istituzioni si limitano ad applicare dei protocolli, che però non guardano all’uomo nella sua interezza, ma solo al suo corpo.
È questa la dicotomia che ha aperto dibattiti che si ripetono da sempre. La malattia può toglierti tutto, il movimento, l’autosufficienza, ma non la tua identità di persona. Se l’uomo, il singolo uomo, diventa misura di tutte le cose, questo porta all’impossibilità che vi sia un criterio assoluto, e apre la strada soltanto a criteri relativi, validi al massimo per un individuo. È un dibattito aperto da circa 2400 anni, che, al bisogno, ciclicamente, torna fuori. Ma è un circolo vizioso, che induce a pensare che non esistano valori morali assoluti, e quindi nemmeno un bene assoluto, ma solo qualcosa che è più “utile”, o più “conveniente”, e perciò più “opportuno”. Questa è la logica che spinge a considerare, di fronte alla sofferenza e al dolore di un uomo, la decisione di porre fine alla sua esistenza.
Una malattia invalidante, come quella che ha preso le mie fibre, stravolge tutti i sistemi di riferimento, proietta in un pianeta di marziani pur continuando a vivere su questa Terra. L’ammalato non è un osservatore passivo, ma un attore del suo destino. Il dolore generalmente non è accettato, è il “non senso” della vita. Come trovare in esso quel cambiamento che possa dare un significato al nostro essere uomini? Come trovare nell’immobilità più totale del corpo il senso vero della vita? È una grande sfida, che impone una rivoluzione copernicana di tutti i sistemi di riferimento. Eppure questa è la mia esperienza: oggi io posso dire che di fronte alla malattia ho trovato il vero senso della vita!
Quando ai primi di giugno del 2016 stavo per ricoverarmi al reparto di Neurologia dell’ospedale Bellaria di Bologna, non avendo un equilibrio stabile sulle gambe inciampai, caddi e mi fratturai il setto nasale. Anche se inondato da un abbondante fiotto di sangue, mentre eravamo in attesa dell’ambulanza, ero tranquillo. Pochi giorni dopo ho ricevuto il responso. Una sigla di tre lettere: SLA. Mi sono chiesto: perché proprio a me? La risposta era dentro di me, dovevo reagire, mi sono detto, e mi sono alzato in piedi. Sarebbe stata una delle ultime volte.
La malattia avanzava, ma io ero sereno. Nei 39 giorni di ricovero in rianimazione, dopo l’intervento di tracheostomia, avevo una certezza: Dio mi ha preparato una via. «Non so dove mi porterà – ripetevo a mia moglie Paola –, ma devo affidarmi totalmente a Lui, perché questa malattia non è per me, ma per un disegno più grande che passa attraverso di me».
Un anno dopo realizzai uno dei miei sogni: un convegno sulla legalità per i giovani universitari di Lecce, con la partecipazione di oltre 800 persone, fra studenti ed adulti. E poi continui messaggi sui social e l’apertura di un blog, con post quotidiani, occasione di tante nuove amicizie. Mi sono ricordato di Aristotele, quando diceva: «Sono i giusti i più capaci di amicizia». Sì, perché l’amicizia vera, quella che il filosofo greco definiva “virtù morale della vita sociale”, racchiude in sé i principi di beneficità, autonomia e giustizia ed è possibile solo tra persone libere. Ed io mi sento tale, nonostante i limiti imposti dalla malattia.
Recentemente ho pubblicato un libro che ho composto con il movimento degli occhi. Il titolo è Sono Libero di Amare: questo significa per me l’acronimo SLA. Sono un semplice strumento nelle mani di Dio, ma non posso esimermi, in questo preciso momento, dal dire che la vita va vissuta fino in fondo. La vita è un dono d’amore, e come tutti i doni non va rimandato al mittente. Questo è il mio messaggio per tutti, sani e malati.