Malata Fedra
L’opera di Euripide è parabola di un sentimento divorante capace di alimentare forze incontrollabili e poi destinato a fiaccare dall’interno l’anima sedotta.
Parole come pietre. Dure. Taglienti. Densamente evocatrici. Sono quelle di Fedra (Ippolito portatore di corona) nella traduzione di Edoardo Sanguineti. Difficili da seguire, inizialmente. Subito catturano grazie all’intensa resa degli attori sapientemente diretti dalla regia di Carmelo Rifici. L’opera di Euripide è parabola di un sentimento divorante capace di alimentare forze incontrollabili e poi destinato a fiaccare dall’interno l’anima sedotta. La tragedia famigliare origina dall’infelice sposa di Teseo, perdutamente invaghitasi del figliastro Ippolito. Rifiutata, lo calunnia prima di darsi la morte. Teseo, credendo colpevole il proprio figlio, lo maledice. Ippolito muore dopo una lunga agonia. Ricompare la fredda Artemide, artefice di tutto per capricci e guerre tra gli dèi, a svelare la verità assicurando a Ippolito l’onore che si riserva agli eroi, ad esaltare la nobiltà dell’uomo, il controllo delle passioni, il coraggio, la capacità del perdono.
Costumi medievali con cromatismi che connotano sentimenti e psicologie; mura di legno che aprono varchi a carri e ad un cavallo rimodellato sulla scultura di Paladino; musiche che sottolineano stati d’animo. Tutto questo al servizio della parola. Ha i toni della malattia nella furente Fedra di Elisabetta Pozzi, cui non rende l’adeguato riscontro che necessiterebbe il ruolo, la nutrice Guia Jelo. Incisivi Maurizio Donadoni, Massimo Nicolini, Ilaria Genatiempo, e l’autorevole messaggero del giovane Emiliano Masala.
Al teatro greco di Siracusa, fino al 20/6.