Di Maio e il destino dei 5 Stelle

Le dimissioni da “capo politico”, rassegnate prima del voto delle regionali in Calabria e Emilia Romagna, sono un terremoto per un movimento che deve trovare la sua linea politica
AP Photo/Andrew Medichini

Le dimissioni di Luigi Di Maio dal ruolo di “capo politico” dei 5 Stelle erano attese da tempo, ma sono arrivate proprio a ridosso delle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria. I sondaggi dicono che saranno disastrose per un movimento politico che è riuscito in poco tempo a raccogliere progressivamente un vasto consenso elettorale nazionale fino allo straordinario risultato del 32,7% nel 2018.

Di Maio si è distinto per aver offerto un’immagine completamente opposta a quella istrionica, geniale e strafottente di Beppe Grillo. Ma l’investitura a “capo”, consacrato nel 2017 dal voto della piattaforma Rousseau, la deve allo stesso comico genovese che sa annusare gli umori del pubblico.

Il “vaffa” liberatorio degli inizi del “Movimento” interpretava, infatti, la repulsione verso le promesse disattese della cosiddetta Seconda Repubblica. Per poter gestire la transizione verso la rapida conquista delle leve di governo è stato necessario affidarsi al volto rassicurante del bravo ragazzo dai modi pacati, pur mantenendo la riserva barricadera di Alessandro Di Battista e non solo.

Nel primo incontro avuto con Di Maio, nel 2013, appena eletto, giovanissimo, vicepresidente della Camera, abbiamo parlato della sua vocazione politica, nata a Pomigliano D’Arco su questioni ambientali e nel liceo, fino all’esplosione del fenomeno 5 Stelle che ha trascinato in ruoli istituzionali una pluralità di soggetti che le regole interne dei partiti tradizionali avrebbero, invece, respinto.

Ma già allora, mentre i 5 Stelle sostenevano la candidatura al Quirinale di Stefano Rodotà (e prima ancora Milena Gabanelli e Gino Strada), era evidente per Di Maio il superamento delle categorie novecentesche di destra e sinistra, come la presa di posizione su temi decisivi da affidare alle procedure di voto interno al Movimento: si dichiarava ad esempio personalmente favorevole allo ius soli, ma si rimetteva alla volontà della realtà che doveva esprimere.

Il tempo che è passato ha, invece, messo in evidenza l’esistenza di una pluralità di posizioni all’interno dei 5 Stelle, riproponibile nella dicotomia di destra e sinistra. Roberto Fico, presidente della Camera, esprime una visione alternativa a quella di Gian Luigi Paragone, transitato dalla Lega e ora estromesso dai pentastellati.

Ma soprattutto è emerso il fatto sperimentato amaramente in ogni organizzazione politica e cioè che, spesso, gli avversari più duri si trovano all’interno del proprio schieramento. E assieme a tante persone di buona volontà, dedite alla causa, non sono estirpabili i portatori di interessi particolari.

I congressi dei partiti della cosiddetta Prima Repubblica costituivano, in questo senso, una rappresentazione eloquente. Forze come la Dc contenevano di tutto al proprio interno, ma erano forzate a restare unite per fare muro ai comunisti.

I 5 Stelle, secondo Grillo, hanno fatto da argine alle correnti profonde delle destre nazionaliste, ma il M5S è un’organizzazione liquida, pronta a sciogliersi come a ricomporsi. L’esperienza del primo governo Conte è stata disastrosa per i “grillini” che hanno sofferto l’estrema visibilità di Salvini, fino a contabilizzare un forte spostamento di consensi nelle elezioni europee, assieme a un preoccupante astensionismo. I temi forti della sicurezza e dell’immigrazione li hanno visti subalterni al leader della Lega, mentre sono stati sbeffeggiati per aver esultato dopo aver vinto la battaglia sull’introduzione del reddito di cittadinanza.

L’idea di poter affermare di aver vinto la battaglia contro la povertà ha messo in evidenza una palese ingenuità, una “barbarica innocenza”, come l’ha definita certa colta stampa ostile. I media, in genere, non hanno mai perdonato a Di Maio la trasparenza del suo curriculum da studente fuori corso di giurisprudenza, con occupazioni precarie comuni a persone della sua età. Per giorni interi, i portali della grande stampa lo hanno messo alla berlina per errori nell’uso del congiuntivo.

Da super ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico si è cimentato con problemi enormi, che ha appena avuto il tempo di affrontare. Sono dossier, tipo l’Ilva, che fanno tremare i polsi anche ai grandi esperti. E dove le istanze ambientaliste originarie dei 5 Stelle si sono scontrate con la complessità della realtà. Così da ministro degli Esteri deve fare i conti con il ruolo declinante non solo dell’Italia ma dell’Unione europea davanti alle potenze emergenti e alla spregiudicatezza di Trump.

C’è da dire che, mantenendo una certa estraneità al sistema, ha preso posizioni in controtendenza come quelle sul salario minimo, le vertenze dei rider, l’apertura festiva dei grandi centri commerciali, che lo hanno reso inviso a certi centri di potere. La vertenza contro i Benetton per la gestione delle autostrade è esemplare e si può monitorare dall’andamento in Borsa del titolo Atlantia dopo le dimissioni di Di Maio.

Ma per poter procedere con decisione, seguendo certe direttive, occorre una linea politica ben definita. E sarà quella che diventerà chiara nel dibattito a Torino durante gli “stati generali” dei 5 Stelle programmati a marzo 2020. In quella fase si capirà il posto di Di Maio. Emergeranno questioni evidenti come le regole democratiche interne e il peso del sistema Rousseau, nonché il ruolo della società gestita da Davide Casaleggio. E, assieme ad ineludibili questioni procedurali di qualsiasi organizzazione non appiattita sul leader, una direttiva di programma condiviso nei particolari. Un partito, quindi.

Fino a marzo il “reggente” Vito Crimi dovrà gestire un periodo difficile, dopo il voto delle regionali del 26 gennaio, la fuoriuscita dei parlamentari e di vari esponenti locali. Sta di fatto che tante persone che si sono avvicinate, grazie al M5S, all’impegno politico sono un patrimonio da non disperdere.

 

 

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