Di Maio, i 5 Stelle e l’Italia che verrà
Di Maio come Saragat? Nel 1947 la scissione di palazzo Barberini condusse alla nascita del Partito social democratico italiano (Psdi) sostanzialmente come scelta di campo occidentale nell’era della guerra fredda, in polemica con la linea di un Partito socialista subalterno al Pci. Sullo sfondo l’adesione all’Alleanza Atlantica fondata, poi, nel 1949.
Per lunghi anni il termine socialdemocratico è stato considerato un insulto a sinistra, come sinonimo di traditore. Di fatto il leader di quella scissione definita di tipo riformista, Giuseppe Saragat, depositario di una bassa percentuale elettorale, ma alleato strategico della Dc, ha avuto una solida carriera politica fino a raggiungere l’incarico di presidente della Repubblica nel 1964.
La sera del 21 giugno 2022 è la sala dell’hotel Bristol di piazza Barberini a Roma ad ospitare la conferenza stampa, attesa da tempo, con cui il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato la separazione dal Movimento 5 Stelle e l’avvio di un percorso verso la costruzione di un gruppo riformista che già vanta di avere 70 parlamentari pronti a farsi valere nei mesi che restano prima delle elezioni della primavera del 2023.
La storia dei partiti è segnata da inevitabili contrasti e scissioni, alimentare da incompatibilità caratteriali oltre che da diversità di idee. Ma mentre nel partito socialista del dopoguerra era vivo un dibattito culturale fondato su storiche radici comuni, resta difficile capire la natura trasversale di un movimento-partito che non si è voluto mai definire tale, fondato da un imprenditore visionario (Gianroberto Casaleggio, morto nel 2016) e da Beppe Grillo, un attore comico dotato di genialità, ma che tuttavia non ha mai voluto assumere un incarico politico diretto, riservandosi il ruolo di guru e di garante di una realtà che è cresciuta in maniera impressionante fino a diventare il partito di maggioranza relativa nelle elezioni politiche del 2018.
Luigi Di Maio è stato selezionato dallo stesso Grillo come volto educato e istituzionale di un movimento che ha espresso istanze anti sistema rappresentate, invece, da Alessandro Di Battista, il “Garibaldi” dei 5 Stelle che ha scelto di non ricandidarsi dopo il primo mandato parlamentare del 2013, pur mantenendo una visibilità pubblica con prese di posizione sempre più decise contro la linea istituzionale seguita dal partito, che ha selezionato e fatto eleggere un docente universitario pressoché sconosciuto, come Giuseppe Conte, alla presidenza del Consiglio in due governi di diverso colore, ma imperniati sulla centralità del M5S.
In quasi 10 anni di posizione preminente in Parlamento, i pentastellati hanno avuto la forza di mettere un giovane come Di Maio in ruoli apicali di governo, assommando in se stesso addirittura la carica di vicepresidente del Consiglio e di ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico fino a quella di ministro degli Esteri, dicastero notoriamente strategico assieme ad Economia e Interni.
La evidente scarsa formazione ed esperienza di Di Maio è stata oggetto di scherno da parte dei suoi nemici, ma il giovane napoletano di Pomigliano D’Arco si è mosso con abilità, dimostrando di apprendere in fretta ciò che conta da insegnanti di alto livello, come sono, ad esempio, gli alti funzionari della Farnesina e lo stesso Draghi, lodato come un vero e proprio maestro dallo stesso Di Maio nella conferenza stampa del Bristol.
Ed effettivamente il presidente del Consiglio è stato abile, nell’intervento al Senato compiuto nella stessa giornata del 21 giugno, ad ottenere il consenso all’invio di nuove armi in Ucraina senza nominare il termine “armi”. E questo grazie al lavoro di esperti politici come il sottosegretario alla presidenza, Vincenzo Amendola, nel definire una risoluzione unitaria dei partiti di governo, compreso il M5S a guida Giuseppe Conte.
Ciò non ha impedito la scissione di Di Maio che pone Conte nel dilemma se continuare nella resilienza interna alla maggioranza o procedere alla rottura con il governo in materia di politica estera, cercando di recuperare, anche su altri temi, quel popolo di disillusi che, come dimostrano le ultime elezioni comunali, hanno abbandonato il M5S.
Operazione difficilissima, ostacolata anche dalle fratture consumate con molti parlamentari che hanno abbandonato i 5 Stelle o sono stati espulsi in questi anni dal Movimento, fondando altri gruppi come “L’alternativa c’è” o trovando collocazione nei più diversi gruppi, da destra a sinistra. Probabilmente solo un’alleanza tra Conte e un Di Battista deciso a riscendere in campo potrebbe riservare delle sorprese in vista del 2023, ma questo vorrebbe dire per il Pd abbandonare l’idea del campo largo del centro sinistra per concentrarsi su quell’area cosiddetta riformista che si popola di molti personaggi in cerca di consenso elettorale: da Calenda a Di Maio passando per Renzi, altro scissionista ma dal Pd, la Bonino e tanti altri compagni di viaggio come espresso da Di Maio: «per fare progredire l’Italia da Nord a Sud verso le sfide globali abbiamo bisogno di aggregare i migliori talenti e le migliori capacità, perché uno non vale l’altro».
Punto discriminante di tale alleanza di impronta draghiana, anche senza il coinvolgimento formale di Mario Draghi, è destinata ad essere la fedeltà atlantista coniugata nella modalità espressa dal presidente del Consiglio davanti alla guerra in Ucraina che non è certo di breve termine. E aperta ai più diversi scenari di una tale serietà che appaiono stonate le polemiche sulla questione del doppio mandato parlamentare che sarebbe, secondo certe ricostruzioni, all’origine di un’ennesima scissione in un Paese dove cresce l’astensionismo.
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