Mai guardarsi indietro
C’è chi torna a frequentare un Museo a lui già noto per rivedere una sola opera, trascorrendo in assorto colloquio con essa lo spazio temporale che altri impiegherebbero a visitare diverse sale. È il caso del mio amico Pubblio. Quasi sempre, accompagnarsi con lui vuol dire non visitare quel dato Museo. Chi però sa stare al gioco e prende parte alla sua esperienza contemplativa, alla fine entra anche lui in felice sintonia con un’opera specifica: essa gli si rivela, si avverte di prender parte al suo mistero.
L’Archeologico di Napoli è uno di quei Musei dove – con o senza l’apporto di un Pubblio – merita fare questa esperienza con l’uno o l’altro esemplare delle sue ricchissime collezioni. Dopo il grande mosaico ellenistico della Battaglia di Alessandro, al quale ho dedicato a suo tempo un itinerario, è la volta del bassorilievo di Orfeo, Euridice ed Hermes: copia romana, sembra, di un originale greco di Alcamene (V secolo), rinvenuta intorno al 1640 in una contrada vesuviana presso Torre del Greco e già parte delle collezioni di Giovanni Battista Carafa duca di Noja.
Dei miti dell’antichità classica quello di Orfeo ed Euridice, già cantato da Virgilio nel quarto libro delle Georgiche e da Ovidio nel decimo delle Metamorfosi, è tra gli intramontabili per aver ispirato fino ad oggi innumerevoli riletture da parte di letterati, artisti, musicisti e anche registi. Il motivo è semplice: esso tocca un problema che riguarda l’uomo di sempre, e cioè la morte, il distacco dalla vita e dalle persone care.
Un breve accenno alla vicenda. Orfeo era un aedo originario della Tracia, figlio del re Eagro e delle musa Calliope. Il suo magico canto aveva il potere di ammansire perfino le fiere e di placare le tempeste: è il motivo per cui partecipò alla pericolosa spedizione degli Argonauti alla conquista del Vello d’oro. Sua sposa era la ninfa Euridice, che morì morsa da una serpe nel tentativo di sfuggire alle avances del pastore Euristeo. Pazzo di dolore, Orfeo tentò di riconquistarla scendendo nel regno dei morti; col suo canto irresistibile impietosì i custodi dell’Ade, Cerbero e Plutone, e da costui ottenne di poterla riavere a patto però di non volgersi a guardarla. Purtroppo a missione quasi compiuta, per accertarsi di essere da lei seguito, Orfeo trasgredì il divieto e perse per sempre Euridice. Da allora si ritirò a piangerla sulle rive dello Strimone, sfuggendo ogni altra donna.
Da questa esperienza negli inferi il cantore tracio istituì i misteri da lui detti orfici che, collegati ai misteri dionisiaci, costituiscono il più importante fenomeno religioso a carattere mistico attestato in Grecia a partire dal VI sec. a. C. Comunque non sopravvisse di molto alla sua diletta. Si narra infatti che, come punizione per la sua misoginia o per aver proibito alle donne l’accesso ai suoi misteri, venne fatto a brani dalle menadi, le seguaci di Dioniso: solo la morte lo ricongiunse ad Euridice. Intanto, dei pezzi gettati nel fiume Ebro, la sua testa era approdata sull’isola di Lesbo, dove, pur separata dal corpo, dava responsi (motivo per cui fu fatta tacere per sempre da Apollo, al quale faceva concorrenza), mentre la sua lira trasportata in cielo era divenuta l’omonima costellazione.
Accostiamoci ora al celebre bassorilievo. Di tutti gli episodi con protagonisti Orfeo ed Euridice, esso riproduce il più commovente: il loro addio sul limitare dei due regni, quello dei morti e quello dei vivi, sotto lo sguardo partecipe di Hermes. Sui tre personaggi sono incisi i rispettivi nomi in greco, aggiunta forse successiva. I due sposi occupano, in muto colloquio, la parte destra del pannello marmoreo, mentre in quella sinistra appare, un po’ discosto come per non turbare la loro intimità, il dio accompagnatore delle anime nell’Ade.
L’intera scena esprime un dolore composto, pudico, rassegnato; parlano, invece delle labbra, gli sguardi, le movenze, le stesse pieghe delle vesti. Euridice poggia la sinistra sulla spalla del marito, come a volerlo confortare, non fargli pesare il gesto intempestivo che l’ha condannata ad una seconda morte. «Non importa, hai fatto quello che hai potuto. L’hai fatto per amore», sembra dire. Quanto a Hermes, che pur rappresenta l’ineluttabilità della legge, si direbbe che svolga controvoglia il suo compito (del resto, gli stessi dei soggiacciono al Fato). Delicatissimo l’intreccio della sua mano con quella di Euridice, già rassegnata ad essere ricondotta tra gli inferi, come indica il suo piede destro rivolto indietro. Torniamo a Orfeo (il cui volto è di restauro): dopo aver scostato il velo dal viso della sposa per riconoscerla, con la destra carezza la mano che lei gli ha appoggiato sulla spalla, mentre con la sinistra regge il suo strumento ormai inutile. Tace la lira, eppure è tale l’armonia della composizione che se ne sprigiona una musicalità dolce e struggente. Viene spontaneo alla mente il celebre brano dell’Orfeo ed Euridice musicato da Gluck: «Che farò senza Euridice? Dove andò senza il mio ben?».
In ambito cristiano, Orfeo, intento ad ammansire gli animali selvatici col suo canto melodioso, diventa simbolo di Cristo la cui dottrina ammalia le genti. Così non ci stupiamo di ritrovarlo nelle catacombe romane identico a com’è raffigurato negli affreschi e mosaici di età classica: in abito orientale e col berretto frigio, seduto su una roccia in mezzo alle creature dei boschi. La sua parabola iconografica culmina nel celebre mosaico ravennate di Galla Placidia: qui Orfeo senza Euridice è ormai diventato il Buon Pastore circondato da sei pecore (i cristiani), di cui una si lascia accarezzare da lui. Manca anche lo strumento: la lira è rimpiazzata dall’asta con la croce.