Mai dire mai

Troppo “vecchio” per vincere ancora. Troppo “deboli” per uno sport tanto pericoloso. Troppo “povero” per partecipare a una rassegna olimpica. Dai Giochi di Sochi, alcuni esempi di chi non si dà per vinto
Il biathlon alle Olimpiadi invernali di Sochi

Ogni giorno che passa l’Olimpiade di Sochi ci sta regalando storie che meriterebbero di essere raccontate. Ci sono ad esempio quelle di fratelli e sorelle capaci di salire insieme sul podio (come accaduto alle canadesi Justine e Chloe Dufour-Lapointe, rispettivamente oro e argento nella finale dei Moguls di freestyle, o come capitato anche ai gemelli olandesi Michel e Ronald Mulder, primo e terzo nella prova dei 500 metri di pattinaggio). Ci sono poi le vicende di campioni leggendari, di atleti straordinari che, con le imprese realizzate in questi giorni, stanno scrivendo pagine indelebili di storia delle Olimpiadi (pensate ad esempio a un fenomeno dello sci di fondo come la trentatreenne norvegese Marit Bjoergen, arrivata per ora ad un bottino personale di otto medaglie a cinque cerchi). Oggi, però, vi vogliamo parlare in particolare di tre storie che hanno a che fare con la determinazione, con il coraggio, con la “fantasia” messa in atto pur di non arrendersi di fronte alle difficoltà che si possono incontrare nel cammino verso il raggiungimento di un sogno. In questo caso specifico, di un sogno sportivo.

40 anni e non sentirli. Il biathlon è una disciplina affascinante ma al tempo stesso durissima. Per emergere, in questo sport, bisogna conciliare una discreta velocità e una buona resistenza sugli sci di fondo a una elevata precisione al tiro. Ole Einar Bjoerndalen è, sicuramente, il più grande biatleta di tutti i tempi. Con la vittoria ottenuta nella prova sprint disputata sabato, l’atleta norvegese ha eguagliato il record di medaglie vinte da uno sportivo in un’Olimpiade invernale (12, come il leggendario fondista Bjorn Daehlie, suo connazionale). A quarant'anni d’età, a sedici dal primo trionfo a cinque cerchi (ottenuto nell’edizione di Nagano del 1998), questo campione che in carriera ha conquistato la bellezza di 19 titoli mondiali e 93 prove di Coppa del mondo, era ormai dato dai più per finito. «Ormai è troppo vecchio per competere a certi livelli, perché non si ritira?», era il commento che girava negli ultimi mesi tra la maggior parte degli addetti ai lavori. Mesi avari di buoni risultati per lui, mesi caratterizzati prevalentemente da prestazioni incolori. Aggiungeteci poi un fresco divorzio alle spalle, svariati problemi fisici (in particolare per una fastidiosa ernia del disco), e il gioco è fatto. «A Sochi non avrà alcuna chance», si diceva. Bjoerndalen, invece, si è dimostrato in questo inizio di Olimpiade tutt’altro che un atleta finito (lunedì è giunto anche quarto nella prova a inseguimento), e non ci stupiremmo di vederlo ancora sul podio in una delle gare che disputerà nei prossimi giorni.

La tenacia delle saltatrici. Ci sono voluti novant’anni per vedere il salto femminile alle Olimpiadi invernali. Questa disciplina, presente ai Giochi nella versione al maschile sin dalla prima edizione disputata nel 1924 a Chamonix (Francia), è stata infatti ritenuta fino a poco tempo fa troppo “audace” per il gentil sesso. Troppo pericolosa, troppo estrema, foriera di «possibili danni alla colonna vertebrale e al grembo delle donne nella fase di atterraggio», come ha spiegato per lungo tempo la federazione internazionale di sci. Così, i vari tentativi delle donne di riuscire a gareggiare in gare ufficiali, sono stati respinti per anni. Ricorsi ai tribunali, petizioni avanzate addirittura all’Onu in nome delle pari opportunità, alla fine hanno portato però al risultato sperato. Nel 2010-2011 è stata istituita la prima edizione della Coppa del mondo, e da questa rassegna a cinque cerchi il salto femminile è entrato a far parte a tutti gli effetti del programma olimpico (a questo punto solo la combinata nordica resta riservata agli uomini). Martedì sera, chi ha assistito alla gara vinta dalla tedesca Carina Vogt, ha capito che queste ragazze non sono tecnicamente sprovvedute, e hanno dimostrato di possedere lo stesso coraggio degli uomini.

Uno slittinista proveniente da un Paese lontano. Nella prova di slittino maschile, quella che ha visto salire sul podio tre fenomeni del calibro del tedesco Felix Loch, del russo Albert Demtschenko e del nostro Armin Zoeggeler, erano in gara anche atleti le cui imprese sportive non passeranno certamente agli onori delle cronache di questi Giochi. Fuahea Semi, ad esempio, è un ragazzo di ventisette anni, originario di Tonga. Da sempre appassionato di sport, e in particolare di Rugby, nel 2008 partecipò a una selezione predisposta dal re del suo Paese che aveva un sogno: vedere partecipare un suo concittadino alle Olimpiadi invernali. Il ragazzo in quell’occasione si distinse, ma mancavano le strutture e i soldi per poterlo far “crescere tecnicamente”, per portarlo a un livello tale da riuscire a qualificarsi per i Giochi. Così, negli ultimi anni, lui si è trasferito in Germania dove, grazie alla sponsorizzazione di un’azienda tedesca di biancheria intima e profumi che lo ha sostenuto economicamente permettendogli di allenarsi sotto la sapiente guida dei tecnici tedeschi, ha cominciato passo dopo passo a migliorare, tanto da centrare l’obiettivo di partecipare ai Giochi di Sochi. Se andate a vedere la classifica finale della prova olimpica conclusa domenica, però, di Fuahea Semi non troverete traccia. Al trentaduesimo posto, in compenso, troverete un rappresentante di Tonga: Bruno Banani. Perché, pur di partecipare alle Olimpiadi, questo ragazzo ha legalmente cambiato il suo nome che ora, guarda caso, è lo stesso dell’azienda che lo ha sponsorizzato! Una scelta per molti versi discutibile, una trovata “commerciale” che ha fatto storcere il naso a tanti, ma che in definitiva ha permesso a questo ragazzo di essere presente in Russia, di realizzare il sogno suo e dei suoi concittadini, e di incarnare a Sochi il famoso detto “l’importante non è vincere ma partecipare”.

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