Mai dire basta

Ma io non faccio niente di speciale, non è roba da scriverci un articolo, si schermisce Gabriella. Senza la soffiata di un’amica degna di fede, finirei per crederle. Invece insisto, fino a convincere questa casalinga di Parona – frazione di Verona sulle colline della Valpolicella – a raccontarmi con la spontaneità che le è propria la sua vicenda di moglie e madre di famiglia a cui le prove della vita non hanno tolto l’ottimismo né impedito di mettersi con generosità al servizio del prossimo. È bastato, in seguito, accennarla soltanto ad un’altra amica per costatare quale incoraggiamento possa risultare l’esempio di Gabriella per chi vive una prova familiare. A ventidue anni ho sposato Alfredo e abbiamo avuto cinque figli: un maschio e quattro femmine, la più giovane delle quali ha ora ventisei anni. Non è stato facile con loro: problemi di salute, droga ed alcolismo, scelte di vita che hanno dato origine a famiglie quasi tutte irregolari hanno alimentato in casa tensioni e litigi. Non che mio marito fosse indifferente alle traversie dei figli, ma quasi rifuggiva da certe responsabilità: era di quegli uomini convinti che, mentre il padre pensa a portare i soldi a casa – e lui gestiva un distributore di benzina – ai figli deve pensarci la madre. Così mentre Alfredo faceva la sua vita tutta dedita al lavoro, io dividevo la mia tra le incombenze di casa e il far fronte ai problemi dei figli senza dimenticare quelli degli altri. Nell’89, con l’arrivo di don Flavio, il nostro nuovo parroco, ho conosciuto la spiritualità dei Focolari, alla quale subito ho aderito. È stato come gettare benzina nel fuoco: per carattere, infatti, ero portata a cogliere sempre il positivo degli altri, ad essere aperta, disponibile a chiunque, ammalato, avesse bisogno di assistenza, o per altri tipi di servizio. Per questo tutti mi conoscono e mi salutano quando mi incontrano per strada qui a Parona. La mia casa poi è sempre aperta, anche all’extracomunitario venditore ambulante. Non sempre posso comprare qualcosa, ma almeno cerco di accoglierlo con un caffè e dei biscotti, o, quando mi vien chiesto, di mettergli a disposizione il telefono per un saluto a casa. Io sono contenta così, è il mio modo di amare. Con l’ideale dell’unità, era cambiata di molto anche la vita familiare: a casa non si litigava più, c’era un’altra atmosfera: non dovevo forse amare tutti a cominciare da mio marito, prendendo io l’iniziativa? Quando lui si è ammalato, un sacerdote al corrente anche degli altri miei problemi mi ha incoraggiata: Affida a Dio i tuoi figli e occupati di tuo marito; cerca di volergli bene e vedrai che presto lui pregherà con te. Ad Alfredo non avevo mai visto fare il segno della croce: veniva in chiesa solo per i battesimi, le prime comunioni, le cresime e basta! Un mese dopo – era fine ottobre dell’Anno Santo – si è sentito male: ricoverato, gli hanno trovato un tumore al pancreas. Sono tornata dal prete tutta scombussolata, non capivo più niente. E lui a ripetermi: Cerca di mantenerti serena e continua a stare vicina a tuo marito. Una volta operato, in camera con lui c’era un anziano assistito dalla figlia suora, la quale una sera ci ha proposto di unirci alla sua preghiera. Mio marito – cosa mai accaduta – ha acconsentito.Nei giorni successivi, anche in assenza di suor Franca, ha continuato a pregare con me. E questo pure dopo il ritorno a casa. Lui ha continuato a stare a questo gioco per un bel po’ finché è sembrato ristabilirsi. Intanto avevo abbandonato tutti gli altri impegni per essere il più possibile accanto a mio marito.Malgrado tutto ero felice: stavo vivendo con lui una unione mai sperimentata prima. Dopo poco più di un anno, purtroppo, Alfredo ha ripreso a stare male. Allora ho capito: ecco la fine. A questo punto però era lui stesso a parlare della morte con rassegnazione: Io ti aspetto di là – diceva -, ma tu sta’ qui più che puoi… Io sono fortunato perché il Signore mi vuole bene, non ho dolori, sto nel mio letto con te sempre vicina. Però – gli facevo notare – bisognerebbe confessarsi. Ma a toccare quell’argomento, Alfredo faceva finta di non sentire. Quando ho visto che si aggravava, ho telefonato a don Flavio. È venuto e con una scusa li ho lasciati soli. Quando è uscito dalla camera di Alfredo, don Flavio aveva le lacrime agli occhi come me. Giorni dopo gli ha portato l’Eucaristia. Più forte del dolore, era la gioia, perché non ci speravo più. Alfredo mi ha lasciata quattro anni e mezzo fa. Adesso sono sola, e le vicissitudini con i figli non sono finite. A volte mi dico: Gabriella, con i problemi che hai – e che la gente neanche immagina per il fatto che appaio così serena – ci sarebbe da buttarsi nell’Adige . Sono aiutata dal mio carattere, certo, ma ho potuto reggere a certe situazioni soprattutto grazie a Dio e al sostegno dell’unità: è questa la mia forza. Oggi vivo con la sola pensione, ma riesco lo stesso ad aiutare mensilmente qualche persona bisognosa. A volte verrebbe da dire basta: in fondo farebbe comodo metter da parte qualcosa per la vecchiaia. Ma è più forte di me. E vedo che la provvidenza arriva puntuale e i conti mi tornano sempre. Giorni dopo aver fatto conoscenza con Gabriella, leggendo queste righe di papa Ratzinger quand’era cardinale mi è venuto spontaneo ripensare a lei: Il futuro della Chiesa può dipendere, anzi certamente dipenderà anche nel nostro tempo, dalla forza di quei credenti che hanno radici profonde, e vivono un’esistenza ricolma della luminosa pienezza della fede….

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