Mahsa Amini forever
C’è una foto, in rete, della cerimonia di consegna del Premio Sacharov 2023 per la libertà di pensiero, avvenuta il 12 dicembre scorso al Parlamento europeo di Strasburgo. Il Premio è il massimo riconoscimento che l’Unione europea (Ue) conferisce agli sforzi compiuti a favore dei diritti dell’uomo, ed è stato conferito quest’anno a Mahsa Amini (familiarmente “Jina”) e al movimento “Donna, Vita, Libertà”, che in Iran ha espresso l’indignazione e la rivolta non solo delle donne, ma di un intero popolo, per la morte della ragazza, avvenuta il 16 settembre 2022 in seguito alle violenze della polizia morale del regime iraniano. La foto di Strasburgo ritrae, partendo da destra, Afsoon Najafi e Mersedeh Shahinkar, due giovani attiviste iraniane per i diritti civili rifugiatesi in Europa poco più di un anno fa, la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, e accanto a lei Mohammad Saleh Nikbakht, il 73enne avvocato che rappresenta la famiglia Amini, arrivato a Strasburgo senza i genitori e il fratello di Mahsa, ai quali la polizia iraniana l’8 dicembre aveva ritirato i passaporti, impedendo loro di partire da Teheran. Nikbakht, avvocato di molti dissidenti, ha detto dopo il suo arrivo in Europa: «Jina Mahsa Amini ha dato la vita per difendere le donne in Iran e oggi ricordiamo il suo sacrificio. Il Premio Sakharov è un tributo a tutte le donne e uomini coraggiosi che nonostante la repressione continuano a lottare per un cambiamento». Durante la cerimonia di Strasburgo l’avvocato ha inoltre letto un messaggio di Mozhgan Eftekhari, la madre di Mahsa: «Il dolore di Jina è eterno per me, ed è imperituro per le persone di tutto il mondo. Credo fermamente che il suo nome, accanto a quello di Giovanna d’Arco, rimarrà un simbolo di libertà. Dal luogo di nascita dell’eterna Jina, vi trasmetto l’infinita gratitudine mia e della mia famiglia e mi auguro che la vostra scelta sia ferma e orgogliosa. Speriamo che nessuna voce abbia paura di pronunciare la [parola] libertà».
Cosciente dell’effetto di queste parole alle orecchie dei giudici del regime iraniano, durante una conferenza stampa, Nikbakht ha anche aggiunto rivolgendosi ai giornalisti, forse per cercare di attenuare le prevedibili conseguenze: «È un onore per noi sapere che la maggioranza dei cittadini dell’Ue sostiene il popolo iraniano. Ma considerate che sono da solo qui e devo tornare in Iran. Spero che comprendiate la situazione».
Pochi giorni dopo il suo ritorno, l’avvocato Mohammad Saleh Nikbakht è stato condannato a un anno di reclusione e ad altre pene complementari. Un tribunale rivoluzionario lo ha giudicato colpevole di “propaganda contro il sistema” per le interviste rilasciate durante il viaggio a Strasburgo. Secondo il suo difensore, Nikbakht non intende presentare appello, come stanno facendo altri dissidenti incarcerati dal regime. Un nome per tutti: la neo-Premio Nobel per la pace 2023, Narges Mohammadi, in carcere a Evin (un sobborgo di Teheran) dal 2021 per le sue campagne contro l’obbligo di indossare l’hijab e contro la pena di morte, e alla quale nei giorni scorsi è stato comunicato che il 19 dicembre inizierà un nuovo processo a suo carico. È il terzo a causa delle sue attività in carcere. Nei due processi precedenti era stata condannata a 27 mesi di carcere e 4 mesi di lavori di pulizia, che si aggiungono alle 5 condanne precedenti per un totale di 31 anni di prigione e 154 frustate. Sebbene alla detenuta non sia consentito fare telefonate o ricevere visite, i suoi appelli e messaggi escono puntualmente dalla prigione (con la complicità segreta di molte persone, che rischiano non poco) e i suoi scioperi della fame hanno trovato la solidarietà di altre detenute, con le quali ha organizzato diverse azioni di protesta.
Ad Oslo, alla cerimonia di consegna del Nobel, il 10 dicembre scorso, Narges era rappresentata da una sedia vuota e una foto, e dalla presenza dei suoi due figli, i gemelli diciassettenni Kiana e Ali, che dal 2015 vivono in esilio a Parigi con il padre, Taghi Rahmani, marito di Narges e anche lui attivista per i diritti.
Nel messaggio di ringraziamento per il Nobel, fatto pervenire al marito (tramite quelle vie segrete che indispettiscono tanto i giudici del regime iraniano), Narges ha avuto parole di condanna per il “regime religioso tirannico e misogino” della Repubblica Islamica dell’Iran.
Mi torna alla mente una reazione del Ministero degli Esteri di Teheran, del gennaio 2023, che commentava le ennesime sanzioni europee (spesso anche poco incisive e aggirate da qualcuno) contro alcuni iraniani degli apparati di governo che avevano compiuto gravi azioni di repressione delle proteste seguite alla morte di Mahsa Amini e per il sostegno alla Russia nella guerra in Ucraina: «Le sanzioni contro l’Iran indicano la loro incapacità mentale [degli europei] a comprendere in modo corretto la nostra realtà come anche la loro perplessità di fronte al potere dell’Iran».
Sì, non riusciamo a comprendere e cerchiamo di non giustificare mai la violenza (tutte le violenze, compresa la pena di morte), soprattutto contro chi sostiene pacificamente i diritti umani.