Maguy Marin e l’estenuante passerella di un’umanità in disfatta
Attiva dal 1976, camaleontica nella sua ricerca di movimento, l’ex bejartiana Maguy Marin è diventata un’icona del teatrodanza grazie al suo titolo cult del 1981 May B. Capofila della nouvelle danse francese anni ’80, artista dal segno turgido, graffiante, imprevedibile, ma anche artefice di un movimento povero e minimalista, Marin ha rappresentato con acutezza la condizione umana nel fluire dell’esistenza.
Ed è anche per questo che alcuni titoli reggono l’usura del tempo e possono ancora stupirci. È il caso di Umwalt (Ambiente, in tedesco), creazione del 2004, poi ripresa nel 2013, e quest’anno ancora in scena ospite del Festival Equilibrio di Roma (dopo il debutto al festival Oriente Occidente di Rovereto lo scorso settembre). E dire che all’epoca, all’esordio, lo spettacolo fu accolto da contestazioni violente, con parte del pubblico che protestava per l’assenza di danza. Qualcuno si avventò fin sotto il palcoscenico dissentendo, anche, per il disturbo del suono distorto provocato da tre chitarre elettriche disposte a terra, le cui corde erano grattate dallo scorrere di un lungo filo mosso da due bobine agli opposti della scena.
Oggi, diversa impressione suscita questo spettacolo, fortemente attuale per la percezione che si ha di un’umanità solitaria, in rovina e irriconoscibile al punto da non sembrare più tale. Qui non c’è movimento di danza, ma solo l’apparire ritmato di camaleontiche figure, un défilé di umanità di miniature realistiche, quotidiane, banali.
I 9 magnifici interpreti – alcuni veterani della Compagnia di Marin – entrano ed escono da dietro dei pannelli flessibili e specchianti scalati su due file, muovendosi l’uno accanto all’altro simultaneamente. Camminano, si sfiorano, si rincorrono, indossano gli stessi abiti, si cambiano, eseguono gli stessi gesti duplicandosi o moltiplicandosi. C’è chi gusta una mela, chi mangia carote tenendo in testa lunghe orecchie da coniglio, e chi rosicchia delle ossa; chi indossa una corona di cartone e chi corna di cervo; chi compare con le manette ai polsi e chi vaga con una torcia; chi porta sulle spalle dei sacchi o dei quarti di bue da macellare, e chi tiene dei mitra in mano; chi ha ali di farfalla e chi una parrucca. Una coppia si bacia e un’altra litiga; una donna si lancia al collo di un uomo nel tentativo di farsi sorreggere. Ogni tanto c’è chi corre smarrito e chi insegue invano qualcuno. E si potrebbe continuare a descrivere all’infinito aggiungendo che nelle stesse azioni ripetute e da sincronismo perfetto, s’inseriscono cambi di costumi e l’aggiunta di accessori.
Sono in balìa di un vento incessante (presagio di un’apocalisse?) dal rumore frastornante, che si placherà solo per qualche attimo, per riprendere minaccioso, sospingendoli e ostacolandoli nel frenetico andirivieni. A interrompere però questo flusso è l’improvviso fermarsi, a più riprese, di una sola figura – in alcuni momenti sono due o tre –, la quale, immobile, ci guarda severa, per qualche istante, complici le luci rivolte appena in platea. Ci interpella, ci sfida, forse chiede aiuto, o forse ci giudica.
Nel frattempo sul proscenio si accumulano dei rifiuti, oggetti che i performer via via buttano fuori facendo di quello spazio una discarica, presagio di un disastro ecologico che fingono di non vedere intrappolati come sono nel meccanismo alienante del loro trantran quotidiano. Alienazione, allegoria, parabola di una condizione umana chiusa in se stessa, dicevamo, che Umwalt rappresenta ancora oggi con forza dirompente reggendo il trascorrere del tempo. E continua a interpellarci con disagio.
All’Auditorium Parco della Musica di Roma, martedì 15 febbraio, per il Festival Equilibrio.