Magistratura politicizzata ?
Il 4 giugno il Senato ha votato una norma che prevede la sospensione dei processi per le alte cariche dello stato. Tali sono considerati i cinque presidenti: della Repubblica, del Consiglio dei ministri, del Senato, della Camera, della Corte Costituzionale. La sospensione riguarda i processi penali per qualsiasi reato, fino alla cessazione delle cariche. Sul merito di tale decisione si può discutere. Importante è però anche il contesto polemico nel quale è stata fatta, e che trova espressione nei recenti pronunciamenti del presidente del Consiglio Berlusconi nei confronti della “magistratura politicizzata”. Il governo sta elaborando una riforma dell’amministrazione della giustizia, all’interno della quale trovano spazio interventi piuttosto pesanti sull’attuale ordinamento dei magistrati; tra questi, il più rilevante riguarda sicuramente l’annunciata separazione delle carriere tra i magistrati inquirenti (i pubblici ministeri) e i giudici. Un provvedimento, questo, che, se realizzato, comporterebbe, a giudizio pressoché unanime dei magistrati, ad una limitazione dell’indipendenza della magistratura, e a un suo più o meno diretto controllo da parte del ministro della Giustizia. Su questo argomento abbiamo chiesto il parere di due magistrati. Entrambi hanno percorso interamente la carriera arrivando alle massime responsabilità, ed esercitando le diverse funzioni (di accusa e di giudizio) che oggi determinano il dibattito. Nonostante una diversa sensibilità che traspare dai loro interventi, risultano entrambi d’accordo nel respingere la separazione delle carriere, a tutela dell’indipendenza dell’istituzione alla quale appartengono. IL RISPETTO DELLA FUNZIONE Per Giovanni Caso la magistratura ha condotto importanti battaglie per il paese, rimanendo sul piano della stretta legalità. Distinguerei l’attuale scontro tra magistratura e governo relativamente ai processi in corso a Milano dalla situazione storica che ha visto nel nostro paese negli ultimi decenni una forte azione della magistratura nella società civile. In riferimento a questa azione, che si è sviluppata su più fronti (lotta al terrorismo, alla mafia, alla corruzione), non è esatto parlare di politicizzazione della magistratura. Fu una scelta della classe politica, del parlamento e del governo, di contrastare il terrorismo con mezzi giudiziari, sicché la magistratura si è trovata a svolgere una importante azione di difesa delle istituzioni democratiche dal tentativo di eversione impersonato dal fenomeno terroristico. Analogamente la magistratura ha svolto il compito, anche in questo caso istituzionalmente attribuitole, di fronteggiare e sconfiggere la mafia con strumenti legali. Non c’è dubbio che anche questo fatto ha legittimato un ampio intervento della magistratura in settori della società civile in difesa della legalità. C’è stata poi l’azione contro la corruzione politico-amministrativa (“tangentopoli”). Certamente, questa azione ha avuto una fortissima incidenza sugli equilibri politici; e, da quel momento, si è iniziato ad attribuire alla magistratura una “ingerenza” nel campo politico. Tuttavia, finché l’azione di repressione penale si è svolta contro singole persone corrotte, essa si è mantenuta nello stretto ambito di competenza del potere giudiziario. Poi, per una serie di circostanze, l’azione giudiziaria ha investito le segreterie dei partiti politici, determinandone il crollo con gravi conseguenze per l’intero sistema politico. Questo fatto è oggi oggetto di giudizi. Ma è doveroso riconoscere che la magistratura italiana ha acquisito indubbi meriti per avere saputo condurre sul piano della stretta legalità – e con gravi sacrifici personali – le battaglie contro il terrorismo, la mafia e la corruzione, ubbidendo alla sua funzione istituzionale di difesa dell’ordine costituzionale, della legalità e della moralità pubblica. Non si comprende la legittimità di questa azione svolta dalla magistratura se non si considera la collocazione del potere giudiziario tra i poteri dello stato, con la specifica funzione di far osservare le leggi nel rispetto preminente dei principi e dei valori della Costituzione e nella sua autonomia rispetto agli altri poteri (legislativo ed esecutivo). Venendo all’attuale contrasto suscitato dall’accusa rivolta a magistrati o gruppi di magistrati di usare i processi con intenti politici, a me sembra che tale accusa risenta molto della vicenda giudiziaria che vede coinvolto il presidente del Consiglio ed altri. Occorrerebbe spersonalizzare l’accusa medesima per riscontrarne la fondatezza. Certamente i magistrati, in quanto persone che partecipano al dibattito culturale del nostro tempo, possono avere una visione politica anche di segno opposto, che deve essere rigorosamente tenuta fuori dalle decisioni dei magistrati, e farne ostentazione nell’attività giudiziaria non è positivo. Penso, però, che anche quando tale visione fosse presente, essa non spinge mai ad alterare la verità dei fatti e a far discostare la decisione giudiziaria dai fatti medesimi. La formazione e la cultura della giurisdizione che, oltre tutto, sono fortunatamente pre- senti nei magistrati italiani, sono una sicura remora contro il suddetto pericolo. Ciò detto, sono convinto che sia assolutamente ingiustificato e pericoloso che si prenda spunto dalla anzidetta vicenda giudiziaria, che ha carattere personale, per proporre e fare riforme dell’ordinamento giudiziario – in particolare, la separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati del Pubblico Ministero o la riduzione del potere di indagine del Pubblico Ministero aumentando quello della Polizia – che mettono a repentaglio l’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario e della sua azione di tutela dell’ordine costituzionale e dei diritti e dei valori fondamentali. Come ha scritto uno studioso del diritto, “i diritti fondamentali sono la base del cambiamento politico, quelli che impediscono il congelamento della società in una situazione determinata, quelli che danno al principio dell’uomo e del cittadino la sua preminenza nel sistema e che fanno della società una società aperta. La funzione centrale della giustizia costituzionale è, attraverso la protezione dei diritti fondamentali, quella del mantenimento effettivo del pluralismo politico e di permettere quindi il cambiamento “(1). Sono stato ultimamente in un paese del Sud America dove la gente lamenta la gravità della corruzione e la incapacità (o impossibilità) della magistratura di agire minimamente. In Italia, grazie alla Costituzione, abbiamo una magistratura che gode di autonomia e di indipendenza e si inserisce a pieno titolo nell’impianto istituzionale dello stato. Essa va rispettata nella sua funzione. Eventuali inconvenienti vanno corretti attraverso gli organi e mediante gli strumenti espressamente previsti. Ricordiamo che il capo dello stato presiede il Consiglio Superiore della Magistratura e che il ministro della Giustizia ha il potere di promuovere l’azione disciplinare contro i magistrati colpevoli. Giovanni Caso POLITICIZZATI? SÌ, MA ESISTONO LE GARANZIE Per Romeo Simi De Burgis le scelte politiche del magistrato possono influenzare le sue decisioni, ma l’ordinamento generale offre una sufficiente tutela al cittadino. Bisogna anzitutto distinguere la domanda in due aspetti: se esistono magistrati con un preciso credo politico, se nell’esercizio delle funzioni le scelte politiche del magistrato influenzino o determinino le sue decisioni. Alla prima domanda bisogna rispondere affermativamente. Vi è un folto gruppo di magistrati con una visione politica di sinistra per lo più aderenti a “Magistratura democratica” che oggi rappresenta la maggioranza nel “parlamentino” dei giudici – l’Associazione magistrati -, e nel Consiglio superiore della magistratura. Alla seconda domanda, non si può negare che il credo politico del magistrato – pubblico ministero o giudice – influenzi le sue decisioni, magari senza che egli se ne accorga. Basta pensare alle scelte di priorità da dare, sia da parte del pubblico ministero, sia da parte del giudice, alla miriade di denunce (il pubblico ministero), di processi (il giudice), tra i tanti, i troppi, che gravano la richiesta di giustizia. Il vaglio del giudice sulle richieste del Pm, i tre gradi di giudizio, due di merito ed uno di legittimità, dovrebbero, ne sono in grado, eliminare il pericolo di una sentenza ingiusta perché influenzata dal credo politico del magistrato. Non vedo motivo per modificare l’attuale statuto della magistratura, soprattutto la separazione delle carriere, che alla fine porrebbe il Pm alle dipendenze del ministro della Giustizia, che anzi inciderebbe negativamente. Non voglio parlare del caso Berlusconi, perché non conosco le carte e, forse, non tutte si trovano nel fascicolo processuale. Chi scrive fu ricusato 13 volte nel processo cosiddetto “Enimont”, dove furono accusati tutti i segretari dei partiti allora esistenti, tranne i comunisti, e vi fu alla fine una condanna di 24 imputati. In appello uno di questi venne prosciolto e la sentenza fu poi confermata in Cassazione. Allora la ricusazione fu basata su una presunta inimicizia tra me e il magistrato del pubblico ministero, non avendo io mai manifestato le mie posizioni politiche. Romeo Simi De Burgis