“Mafia capitale”: riconosciuta l’associazione mafiosa

La sentenza d’appello nel processo “Mondo di Mezzo” ha accertato l’esistenza di un’associazione a delinquere di stampo mafioso. Premiato il lavoro dei magistrati guidati da Pignatone. I giudici hanno riconosciuto la pericolosità delle cosiddette “nuove mafie”.

Di Raffaele e Luca Natalucci

Martedì 11 settembre è arrivato il verdetto nel processo al “Mondo di mezzo”. Nell’aula bunker del carcere di Rebibbia i giudici della III Corte d’Assise d’Appello di Roma hanno riconosciuto l’esistenza di un’associazione a delinquere di tipo mafioso ribaltando così il giudizio di primo grado che faceva riferimento a due diverse associazioni a delinquere semplici, riconducibili rispettivamente a Buzzi e a Carminati. La sentenza ha ritenuto fondato l’impianto accusatorio della Procura di Roma guidata da Giuseppe Pignatone, già procuratore della Repubblica a Palermo e a Reggio Calabria. Gli imputati nel maxiprocesso davanti alla Corte d’Appello erano 43. La condanna per Massimo Carminati ex militante nei Nar e legato alla Banda della Magliana è stata ridotta a 14 anni. Per Salvatore Buzzi, fondatore della cooperativa “29 giugno”, la condanna passa a 18 anni e 4 mesi. I condannati per il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso, oltre a Buzzi e a Carminati sono 16, fra i quali: l’ex consigliere di Forza Italia Luca Gramazio (8 anni e 8 mesi) e l’ex amministratore delegato di Ama Franco Panzironi (8 anni e 7 mesi). Le condanne per altri reati riguardano diversi esponenti della politica e della pubblica Amministrazione come l’ex vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine, il quale ha patteggiato la pena a 5 anni e 2 mesi e l’ex presidente Pd dell’Assemblea capitolina Mirko Coratti (4 anni e 6 mesi). Si sono costituiti come parte civile nel processo: Regione, Comune e associazioni antimafia come “Libera”, vicina a giornalisti come Lirio Abbate, minacciati per aver denunciato la presenza della mafia a Roma. Fatto salvo il principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio e in attesa che vengano depositate le motivazioni, il dispositivo della sentenza sembrerebbe confermare l’ipotesi accusatoria, ovvero l’esistenza di una struttura criminale mafiosa capace di condizionare appalti e attività economiche mediante l’infiltrazione nella politica e nella pubblica amministrazione capitolina. Il “mondo di mezzo” di cui parlava Carminati in una nota intercettazione, costituirebbe quella zona “grigia”, posta a metà strada tra il mondo di “sopra” che opera nella legalità, e il mondo di “sotto”, ossia gli ambienti criminali. Grazie all’influenza acquisita nel corso degli anni, Carminati avrebbe assunto il ruolo di collettore di interessi tra potere politico ed economico, da un lato, e malavita, dall’altro. Oltre all’estorsione, all’usura e alla violenza tradizionale, l’organizzazione criminale si sarebbe ampiamente servita della corruzione mediante il ricorso alle tangenti ed alla prassi ordinaria di mettere a libro paga funzionari e politici di primo piano.

Dimostrare l’associazione di stampo mafioso non è semplice. L’articolo 416- bis del codice penale impone ai pubblici ministeri di provare l’esistenza di tre elementi: il vincolo associativo, il perseguimento di una finalità lecita o illecita e l’esercizio del metodo mafioso che richiede una forza intimidatrice da cui derivi assoggettamento e omertà. In attesa di conoscere le motivazioni della sentenza è possibile trarre le prime conclusioni. In primo luogo il giudizio di appello si inserisce nel solco di quella giurisprudenza che riconosce l’esistenza delle cosiddette “nuove mafie”: organizzazioni criminali autoctone ed autonome rispetto alle mafie tradizionali quali ‘Ndrangheta, Cosa Nostra, Camorra e Sacra Corona Unita. In secondo luogo la sentenza sembrerebbe premiare la ricostruzione della procura, secondo cui il metodo mafioso avrebbe come effetto non solo l’assoggettamento di realtà territoriali ma anche il controllo di un ambiente sociale. Tale assoggettamento infatti può avere ad oggetto tanto un territorio quanto una realtà smaterializzata come ad esempio il mercato o un segmento della pubblica amministrazione. Il terzo aspetto è più controverso. Sarà importante, infatti, capire come la Corte d’Appello motiverà l’elemento della forza intimidatrice riconducibile all’associazione. In altri termini va chiarito se le mafie di nuova generazione, operando in settori come l’amministrazione, possano far uso prevalentemente del metodo corruttivo relegando l’intimidazione ad una riserva solo potenziale dell’associazione, o se invece sia necessario il concreto utilizzo da parte dell’associazione della forza intimidatrice. La procura di Roma ha sostenuto fin dal primo grado che il metodo corruttivo utilizzato dai principali imputati, Buzzi e Carminati, fosse solo il presupposto per l’accumulo del metodo mafioso, in concreto esercitato tramite il ricorso all’intimidazione. La questione sarà probabilmente affrontata nel corso del successivo grado di giudizio in Cassazione.

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