I maestri orafi di Arezzo
«La tradizione orafa qui è antichissima, risale addirittura agli etruschi, quando Arezzo fu la capitale di un certo tipo di produzione, molto vicina all’oreficeria: la fusione monumentale», racconta Giuliano Centrodi, storico dell’arte e direttore del Museo Aziendale della Gori&Zucchi-UNOAERRE. «La Chimera di Arezzo, la Minerva, l’Arringatore del Trasimeno, sorgono qui, dove si trovavano le materie prime, come il rame nativo, nei monti Rognosi, o l’oro, nelle acque del torrente Sovara».
La prima impressione è di trovarsi dentro un piccolo forziere dall’imbottitura dorata. Poi, cominci a camminare tra le teche di vetro e scopri non solo la storia di un’azienda, l’Unoaerre, protagonista dell’oreficeria italiana degli ultimi novant’anni, ma anche quella di una tradizione e di un territorio.
«Dal punto di vista di quest’arte, anticamente, Arezzo era una città di periferia, non aveva vissuto i fasti di Siena e Firenze. I maggiori geni emigravano andando a lavorare altrove: come Leone Leoni in Spagna, il Pastorino a Siena, Massimiliano Soldani Benzi, alla corte medicea. Qui, resisteva soltanto una piccola produzione più popolare, la cosiddetta “produzione chianina”, che risaliva al Settecento».
Si trattava, mi spiega Giuliano, di anelli e orecchini che, per tradizione, venivano regalati dai suoceri alle nuore, in occasione delle nozze: «Per le classi più agiate, si producevano anelli e orecchini d’oro, decorati con perle preziose, invece, per il popolo si facevano in argento e vetro colorato. Erano gioielli che si vendevano addirittura al mercato, in tutta l’area della val di Chiana: a Foiano, Montepulciano, Orvieto, Chianciano, fino al Trasimeno».
Il “rinascimento”, per così dire, dell’arte orafa aretina comincia intorno agli anni Venti del Novecento, per la precisione nel 1921, grazie all’incontro di due orefici: Carlo Zucchi, che aveva la sua bottega in centro storico ad Arezzo, e Leopoldo Gori, un senese con il pallino della chimica, che attraversava in lungo e in largo la Toscana per ritirare dai laboratori le polveri d’oro e gli scarti delle lavorazioni. Si incontrarono, si diedero fiducia e, nel 1926, costituirono quella che più avanti sarebbe diventata l’UNAERRE.
«La storia del nome è particolare. Fino a quel momento, in Italia, nei gioielli veniva impressa soltanto “la bontà del titolo”, cioè dell’oro puro contenuto, espresso o in carati o in millesimi. Ma nel gioiello non c’era il nome dell’azienda che lo aveva prodotto. Nel 1934, Mussolini invitò tutte le aziende orafe ad andare ad iscriversi all’ufficio metrico provinciale e la prima ad Arezzo fu proprio la Gori & Zucchi, che ebbe quindi il marchio “1 AR”, cioè la prima in provincia di Arezzo. Poi, nel 1950, questo codice venne registrato come marchio aziendale: “Unoaerre”, chiuso dentro un ovale».
Il racconto di Giuliano, che scopro essere stato anche il direttore artistico dell’azienda dal 1990 al 2000, è avvincente.
«La loro intuizione fu tentare di trasferire i metodi di produzione industriale al settore orafo , creando un gioiello alla portata di tutti».
Malgrado la crisi del 1929, la produzione industriale di gioielli non si ferma, anzi, contribuisce a risollevare economicamente il territorio di Arezzo creando lavoro. Vengono acquistate le prime macchine a Pforzheim in Germania, tra cui “La Berta”, oggi orgogliosamente esposta nell’atrio della fabbrica, con la quale si cominciarono a coniare medaglie e medagliette, a soggetto religioso e laico. Di gioiello in gioiello, attraverso le teche, viene ricostruita una parte della storia del nostro paese: i gioielli neri da lutto; i primi prodotti negli anni ’20, a cavallo tra art déco e liberty; i “gioielli autarchici”, senza oro, fatti in argento, rame o platinite e decorati con il corallo, che ancora si pescava nel Mediterraneo, e la marcassite, un minerale del ferro ricco di bagliori che richiamavano vagamente il diamante. Poi, negli anni ’40, ritorna l’oro, con i bracciali che riproducono le catene dei “tank”, dei carri armati, le cinghie di trasmissione, le mine. Forme e simboli che trasposte nella gioielleria sembrano voler trasfigurare il ricordo del dolore e della morte lasciato dalla guerra. Con gli anni ’50, l’oro diventa il dono prediletto per i momenti importanti della vita: il Battesimo, la Comunione, la Cresima, il Matrimonio. Le fedi nuziali, in particolare, che qui vengono realizzate senza saldatura, ispirandosi al Santo Anello della Vergine, fatto di un unico pezzo d’onice e conservato nella Cattedrale di Perugia ma proveniente dalla chiesa di Santa Mustiola, di Chiusi in Val di Chiana.
Oppure, la Medaglia dell’Amore, uno dei gioielli simbolo dell’azienda e riconosciuto come il più popolare del XX secolo. Racconta, a tal proposito, Giuliano Centrodi: «Fu un caso. Gori e Zucchi incontrarono i titolari della Maison Augis di Lione in crociera. Loro si disperavano perché la loro creazione “La Medaille de l’Amour”, non aveva avuto granché successo in Francia. Gori e Zucchi capirono subito che in Italia sarebbe stato un successo, così nel 1960, cominciarono la produzione. Sulla medaglia c’era scritto “+ di ieri, – di domani”, sintetizzando una poesia di Rosemonde Gérard, moglie di Edmond Rostand, l’autore di Cyrano de Bergerac: “perché tu veda che io t’amo, ogni giorno di più: oggi più di ieri e molto meno di domani”».
La mia visita continua attraverso vere e proprie opere d’arte, realizzate in collaborazione con scultori e artisti del calibro di Dalí, Emilio Greco, Pietro Annigoni, Giacomo Manzù, Francesco Messina, e Giò Pomodoro che creò un’importante serie di pezzi unici adottando particolarissime tecniche di fusione.
Ad un certo punto, in una vetrina, in basso, noto due spade enormi, tutte tempestate di pietre preziose, che un po’ stonano con la bellezza quasi familiare degli oggetti visti finora: «Giuliano,» chiedo «e queste cosa sono?»
Giuliano sorride: «La prima è il prototipo che abbiamo usato per forgiare le 150 spade ordinate da Saddam Hussein per i suoi sceicchi, ognuna diversa a seconda della loro dignità. Alcune erano tempestate di rubini, alcune placcate in oro bianco. 100 andarono a buon fine. 50 non furono più fatte perché lui occupò il Kuwait, ci furono le sanzioni e fu bloccato tutto. In arabo, sull’elsa, c’è scritto che queste spade sono state forgiate con il ferro dei cingolati dei carri armati nemici. Ma non è proprio vero… Il dittatore ci mandò per davvero un tir carico di cingolati ma il fabbro di Capolona che ci faceva le lame si oppose, perché il metallo non era buono. Così, usò un altro materiale. Ora che è passato un po’ di tempo, si può dire».
Il piccolo museo aziendale dell’UNOAERRE si trova in località San Zeno, poco fuori Arezzo, dentro la sede dell’azienda. Per la visita, basta scrivere una mail, ed è gratuita. Vale davvero la pena di visitarlo, per scoprire le tante storie, personali e pubbliche, locali e internazionali, che silenziosamente custodisce.