Madiba sul grande schermo
Per chi volesse, oggi, a cento anni esatti dalla nascita, ripercorrere la vita straordinaria di Nelson Mandela, il cinema potrebbe essergli di aiuto: se unissimo su una linea immaginaria i film su Madiba, avremmo ricomposte quasi interamente – per blocchi complementari – la sua storia e la sua lezione. Potremmo partire dall’11 luglio del 1963, quando una retata presso una fattoria di Rivonia, in Sudafrica, portò in carcere Mandela con altri esponenti dell’African National Congress. Vennero accusati di sabotaggio e terrorismo, e ciò che avvenne durante il processo è stato di recente raccontato in un buonissimo film del regista Jean Van De Velde: Atto di difesa – Nelson Mandela e il processo di Rivonia, del 2017. Mandela è tra i protagonisti, ovviamente, ma è soprattutto la storia dell’avvocato Bram Fisher: un afrikaner, un bianco potente che poteva starsene al sicuro nella sua villa con piscina, ma che in quegli anni ’60 sudafricani lottò – fino a morire – contro l’apartheid. Fischer mai considerò il suo mestiere come «un giocattolo per i ricchi – dice lui stesso nel film –, ma come uno strumento non al servizio dei più deboli». Al contrario, rischiò in prima persona la vita, da bianco presidente qual era di tutti gli avvocati sudafricani. Il film è un classico legal movie, teso, lucido, convincente dalla prima all’ultima sequenza, pieno di dialoghi serrati e limpidi, di un continuo legame tra personaggi e sfondo storico. Di Mandela si racconta soprattutto il suo definitivo convincersi dei benefici portati da una battaglia non violenta, e questo suo processo di comprensione passa anche per i consigli del suo intelligente e coraggioso avvocato, lui stesso impegnato clandestinamente – da militante comunista – nella lotta di liberazione contro la separazione tra bianchi e neri nel Paese. Fino ad allora l’Anc – Mandela compreso – aveva risposto alla violenza anche con azioni violente, dopo essere stata messa fuori legge e dopo aver visto frustrati i tentativi di risoluzione pacifica del conflitto.
Da qui parte il film, dalla probabile pena di morte per Mandela e gli altri, fino alla sentenza di carcere a vita emessa per quasi tutti gli accusati, accolta come una vittoria dai neri, e inizio di un lento percorso di cambiamento. La via «dell’acqua», viene definita nel film, contrapposta a quella «della roccia» più rumorosa e rapida, ma alla lunga meno efficace. Coinvolgenti sono le arringhe dell’avvocato Fischer e coinvolgente è il monologo di Mandela prima della sentenza della corte: «Noi vogliamo essere parte della popolazione e non confinati nei ghetti – spiega il leader all’aula affollatissima – vogliamo una terra nostra e che ci sia permesso di uscire dopo le 11.00 di sera. Vogliamo sicurezza e che ci vengano riconosciuti pari diritti politici, perché senza di essi le nostre menomazioni saranno permanenti. Ho nutrito l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone vivano insieme in armonia. E’ un ideale per cui spero di vivere, ma per il quale sono anche disposto a morire».
Uno stacco ideale può condurci da queste parole a un altro film su Mandela: Il colore della libertà, del 2007, del regista Billie August. Siamo nel 1969, nel carcere isola di Robben Island, dove Madiba è recluso da 5 anni. È la storia del rapporto tra lui e il suo carceriere James Gregory: un bianco che conosceva la lingua Xhosa – quella dei neri e di Mandela – ed ebbe il compito di censurare le lettere del detenuto, oltreché di controllarlo durante le visite di sua moglie. È il racconto di una conversione politica, sociale e umana; è il cambiamento di un pensiero singolo, l’annientamento del razzismo dentro una persona, mentre quest’antica piaga dell’uomo è fotografata nel suo scorrere torrentizio in una terra divorata da conflitti politico-sociali. Si confondono i piani: le posizioni tra carcerato e carceriere. La libertà, ci viene detto, supera la condizione fisica: è un pensare sano, nobile, che apre gli occhi a un uomo sul cui viso è stata colata una brodaglia collosa e accecante. Gregory risorge e da cui fiorisce un’amicizia che durerà per tutto il tempo narrato dal film: dalla fine degli anni ’60 all’inizio dei ’90. È un aprirsi che diventa crescita e sostegno reciproco, visto che quando anni dopo Gregory perderà suo figlio, Mandela sarà lì a sostenere lui e sua moglie, anche se lo avevano considerato un terrorista.
Con un altro salto virtuale atterriamo nel terzo film su Nelson Mandela. È un balzo piccolo, che cade nel maggio del ’94: Madiba è stato eletto presidente del Sudafrica, e il film è Invictus, di Clint Eastwood, del 2009. È l’allargamento esponenziale della vicenda raccontata nel lavoro precedente: quel rapporto a due – da uomo a uomo, oltre ogni colore della pelle e tradizione culturale – è spalmato su un intero Paese. Mandela non si vendica: perdona. Punta sull’inclusione reciproca, sull’avvicinamento tra due parti a lungo in guerra.«Gettate le armi nell’oceano», dice ai suoi appena uscito di galera, nel breve preambolo che apre il film, quando il Sudafrica era sull’orlo della guerra civile. Poi rassicura i bianchi: «Il passato è passato. C’è bisogno dell’aiuto di tutti. Se riusciamo a fare questo, il nostro Paese sarà una grande luce nel buio». Rassicura anche i neri, quando il capo della scorta si trova a lavorare con poliziotti bianchi: «La riconciliazione comincia qui – spiega Mandela all’impaurita guardia del corpo – anche se fino a ieri cercavano di dividerci. Anche il perdono comincia da qui. Il perdono libera l’anima e cancella la paura. Ecco perché è un’arma tanto potente».
Il conflitto diventa strumento di lavoro, per Madiba, anche il rugby, fino a poco tempo prima simbolo di divisione, con la nazionale degli Springboks amata dai bianchi e odiata dai neri. «Se a loro stanno a cuore gli Springboks – spiega Mandela a un’assemblea vogliosa di abolire la squadra – e noi glieli portiamo via, penseranno che siamo come temevano che fossimo. Dobbiamo usare ogni mattone per costruire la nazione, altrimenti rafforzeremmo il circolo vizioso di paura che ci divide, e quel circolo vizioso che ci distruggerebbe». Non abolì gli Springboks, Nelson Mandela: li rinforzò nello spirito dialogando col loro capitano. Essi vinsero la coppa del mondo nel ’95, in Sudafrica, contro gli All Blacks della Nuova Zelanda. Soprattutto, contribuirono ad unire ed integrare bianchi e neri. Questo racconta Invictus, il cui titolo è tratto da una poesia fondamentale per Mandela durante gli anni della prigionia. Una poesia scritta da un bianco, ma che non parla del colore della pelle.