“Made in carcere”, la ricchezza del dare
Oggi, Luciana vive nel centro storico di Lecce, ha una casa “grande che accoglie”, sempre piena di amici, come mi racconta. Ha una vita piena, tessuta delle relazioni di una vita ed è, per sua definizione, ricca ma di una ricchezza diversa: «Io dico sempre che il “dare” e il “darsi” sono la nuova frontiera della ricchezza in questo momento di crisi economica e dei valori, in cui si sono perduti i sapori e i saperi antichi, e siamo prigionieri di una violenta omologazione».
Luciana Delle Donne prima abitava a Milano ed era una topmanger del settore bancario, creatrice del primo modello di banca on line multicanale in Italia. Dopo 22 anni in questo settore, sente affacciarsi dentro di sé un desiderio, quello di ridare agli altri quanto ricevuto:«Volevo cambiare vita, ma non sapevo a partire da cosa… Volevo restituire un po’ di quello che avevo ricevuto, ma non sapevo dove riporlo. Quando ho scelto il carcere, l’ho fatto perché era il luogo più emarginato e degradato, che nessuno voleva toccare».
Così, ritorna a casa, nella sua Puglia e, nel 2008, la sua nuova creatura, “Made in carcere”, stacca la prima fattura. Si tratta di un brand che promuove laboratori sartoriali e di gadgettistica per le detenute dei carceri di Lecce e Trani, con una particolare attenzione al recupero e al riciclo di tessuti e materiali di scarto.
«Le detenute vengono formate nel giro di 2-3 mesi, poi le assumiamo con contratto a tempo determinato o indeterminato a seconda del periodo di detenzione. Quando escono, hanno acquisito competenze professionali che non si limitano alla cucitura di un capo, ma che riguardano la responsabilità del loro ruolo nel processo produttivo, per le consegne e la propria gestione amministrativa (ferie, TFR). Per loro, anche la busta paga è già un sintomo della dignità riacquisita, che avevano perso per il reato commesso».
Made in carcere è un brand che raccoglie borse, oggettistica per la cucina, per la persona e il tempo libero, bomboniere, custodie tech, addirittura strutture per la creazione di orti verticali.
«La nostra materia prima sono gli scarti degli altri. C’è chi ci dà la lycra per i braccialetti, chi i tessuti per realizzare le borse. E noi ci mettiamo tanta creatività, che è un gioco di squadra: io creo il modello e poi, con le ragazze variamo. Delle volte anche dagli errori vengono fuori delle soluzioni molto belle. Per esempio, da una tracolla cucita storta può nascere un nuovo prototipo!»
E la loro creatività è tale che recentemente l’ADI, l’Associazione per il Disegno Industriale gli ha conferito un premio:«Abbiamo vinto un concorso, un premio per essere presenti con i nostri prodotti sulla loro rivista, ADI design, dove vengono selezionati i migliori prodotti del design italiano».
Perché l’impegno di Made in carcere non si ferma dentro le mura del penitenziario: «La forza del nostro modello è anche dovuta alla volontà precisa di voler “contaminare” anche il mercato diffondendo i nostri progetti e distribuendo i nostri prodotti. Ogni volta che qualcuno acquista le nostre creazioni sta compiendo la sua goccia di buona azione quotidiana, che serve a cambiare il corso della vita di alcune persone, ma anche della storia di tutti, inquinando di meno il nostro pianeta».
E ora bisogna festeggiare questi dieci anni di attività:«Vorremmo dare una svolta al processo produttivo, nel mondo della moda e della gadgettistica etica non dico “industrializzando” un processo artigianale, ma rendendolo replicabile in altri laboratori, sempre qui in Puglia, perché qui al sud non c’è lavoro per le donne detenute».
Intanto, speriamo a settembre, Made in carcere, dovrebbe cominciare una nuova avventura, questa volta nel carcere minorile: «La parte formativa del progetto è già conclusa, ora siamo in attesa di partire con la produzione del nostro “Buon bisco’”, un biscotto senza uova e latte, fatto con 4 ingredienti di altissimo livello: la farina di grano Senator Cappelli, olio extra vergine biologico, zucchero di canna biologico e vino primitivo doc. Un biscotto dal gusto antico».
Un prodotto che, immaginiamo, farà bene alla nostra salute… «… E a quella dei ragazzi ospiti del carcere minorile. Io dico sempre – conclude – che nella “cassetta degli attrezzi”, durante il processo di ricostruzione di una persona, devono starci l’esperienza della bellezza, della bontà e la responsabilità verso il progetto cui si entra a far parte. Anche sperimentare la “normalità”. Vale per le donne e ancora di più per i ragazzi che non hanno esempi di “buon comportamento” e che vivono spesso in un contesto di degrado e emarginazione, anche grazie alla virtualità delle loro relazioni».