Madama Butterfly, morte di una farfalla
Un bel dì vedremo è l’aria forse più famosa della «tragedia giapponese in tre atti», musicata da Puccini come la sua «opera più sentita», caduta alla prima alla Scala nel 1904, poi risorta a Brescia e corretta in diverse versioni. Cio-Cio-San, ovvero una quindicenne geisha giapponese, è una creatura povera che per vivere esercita questo mestiere, e si concede all’ammiraglio americano Pinkerton. Lui la sposa come per un gioco – ogni porto avrà un’altra donna –, ma lei ci crede davvero e se ne innamora. Quando egli se ne andrà, lo aspetterà lottando contro tutti e alla fine conoscerà l’inganno e il tradimento. La “piccola farfalla” innamorata e delusa pagherà con la vita la speranza delusa dall’egoismo maschile.
È la donna vittima dell’amore, così puccinianamente forte e fragile, come Mimì, Tosca, Manon. Al contempo, coraggiosa, determinata, per quanto all’inizio timida e infantile per poi maturare col tempo del dolore. Scontro di due concezioni dell’amore, quello del turismo sessuale e quello di una antica tradizione di dedizione e di fedeltà, destinata fatalmente ad una morte. Anche dell’avido Pinkerton, il cui rimorso con frasi “fatte” suona retorico e inutile (in qualche modo come l’Alfredo de La Traviata).
Puccini ha scritto una musica orchestralmente raffinata: echi di Wagner, Strauss, Debussy, melodie giapponesi “risistemate”, lontani ricordi verdiani formano un humus originale e fascinoso. Insieme, arie e duetti come pause liriche melodiosamente brevi, come il duetto d’amore del Finale primo, dal lontano ricordo di quello verdiano dell’Otello, ma qui carico di una sensualità esotica e “decadente”.
A Roma, giustamente, si è voluto attualizzare il dramma, destinato prima come spettacolo all’aperto, ma ben riuscito al chiuso, tra le scene oniriche e poetiche di Alfons Flores – pleniluni, albe, tramonti sanguigni –, e i costumi moderni di Lluc Castells per cui Pinkerton è un ricco costruttore, un predatore sessuale di una ragazza povera in un quartiere periferico di una metropoli.
La regia di Alex Ollé – de La Fura dels Baus – è spigliata, mossa (anche troppo, le cantanti devono salire e scendere su per una scala a pioli), con numerosi figuranti – guardie del corpo, gente di cantiere… –, e l’intelligenza di non mostrare la scena del “kara-kiri”.
L’orchestra è sontuosa, Abbado dirige con passione l’opera per la prima volta, l’ha ben studiata – si sente -, talora tende a coprire le voci ma migliorerà lungo la via. Buono il secondo cast: la precisa Maria Teresa Leva, Luciano Ganci (squillante, talora troppo), il perfetto Sharpless di Giovanni Meoni e poi il coro a bocca chiusa – molto bello – introdotto da un preludio che mai si esegue e che Abbado ha voluto, un momento dolcissimo in un lavoro tragico, dove l’occidente non comprende l’oriente, allora come ora e la donna è spesso oggetto e non soggetto.
Butterfly, senza gridarlo, appare oggi non come un lavoro di femminilità bamboleggiante ma una tragedia dell’amore infranto, del sogno spezzato e della morte come rinuncia estrema alla vita davanti al disonore. Repliche fino al 25.
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