Macron, la condivisione del potere
I risultati elettorali per le Europee di una settimana fa hanno colpito al cuore il presidente Macron, già lungamente lavorato ai fianchi dalla lunga battaglia dei gilet jaune, che hanno perso di slancio ma le cui ragioni d’essere sono sempre più evidenti in una Francia assai preoccupata non solo del proprio futuro, ma anche del presente. La desta di Marine le Pen – il Rassemblement National – è il maggior partito, col 23,3% dei voti e 23 seggi, tanti quanti il partito di Macron – La République en marche –, che però non ha raggiunto che il 22,4% dei votanti. Terzi, a sorpresa, i verdi – Europe écologie – col 13,5% e 13 seggi, mentre i centristi – Les Républicains – sono ormai solo al 9,5% e a 8 seggi. Sinistra anch’essa in grave crisi, con La France insoumise col 6,3% e 6 seggi, e i socialisti appena un po’ meno, con il 6,2% e 6 seggi egualmente.
Emmanuel Macron ha così ricevuto una conferma all’evidenza: se vuole continuare a sperare in una rielezione, deve radicalmente cambiare registro. Aveva tentato la carta delle grandi consultazioni nazionali sulla spinta dell’imponente movimento iniziale dei gilet jaune, cominciati nel novembre 2018, ma tutto ciò non ha provocato che qualche provvedimento di legge, qualche sconto fiscale, qualche aggiustamento nella catena di comando governativa, qualche poltrona cambiata, ma poco di più.
Ora, dopo aver ascoltato i “giubbotti gialli” reclamare le sue dimissioni a gran voce per mesi e mesi, Emmanuel Macron sembra voler abbracciare le virtù del proprio ridimensionamento. Colui che è stato definito “l’iper-presidente”, colui cioè che ha cristallizzato tutta la centralità della politica francese su se stesso all’inizio del quinquennio, forte di un iper-attivismo interno e internazionale sostenuto dalla sua giovane età e dall’ambizione sfrenata, ha capito che, se vuole ricandidarsi nella corsa alle elezioni presidenziali del 2022, e soprattutto, se vuole assurgere al rango di “uomo di Stato” amato e ricordato dalla sua gente, deve cambiare registro.
Il segnale più chiaro di tale decisione, certamente sofferta per il carattere del presidente, è la sua decisione di lasciare al primo ministro Edouard Philippe di rivolgere il tradizionale discorso di politica generale, il prossimo 12 giugno, all’Assemblea nazionale. La notizia, resa pubblica alla fine del Consiglio dei ministri di mercoledì 29 maggio, conferma l’intenzione del presidente di condividere meglio le responsabilità politiche, dando in particolare più spazio al fedelissimo Philippe. Già il 25 aprile Macron aveva lasciato intendere che bisognava interpretare diversamente il presidenzialismo tipico della Francia – in cui il capo dello Stato presiede nei fatti anche il Consiglio dei ministri –, corredandolo con una ripartizione più equilibrata del potere governativo. Lo fece allora, dichiarando chiuso il “grande dibattito nazionale” provocato dai gilet jaune.
Solitamente riservato ai nuovi capi di governo, il discorso politico del 12 giugno sarà seguito da un voto. È un segno di «accelerazione della politica dell’esecutivo», per prendere in prestito un’espressione usata dal portavoce dell’esecutivo, Sibeth Ndiaye. Passata la prima fase della presidenza Macron, ora sembra che egli voglia passare al “disimpegno nella quotidianità” per poter risalire nei sondaggi e potersi porre come un arbitro più che come una delle parti in causa. Come farlo se tutti i poteri sono concentrati nelle propri mani? Con chi prendersela? Su chi scaricare le responsabilità se le cose vanno male? Ecco allora uscire allo scoperto Edouard Philippe. Capro espiatorio? Non è possibile ancora dirlo. Il primo ministro, poco conosciuto all’estero e anche in Francia per via dell’iper-esposizione mediatica di Macron – che comunque non è finita, basti guardare le immagini del recente summit europeo a Bruxelles – è un uomo che probabilmente ha delle risorse insospettabili. Basta leggere il suo ultimo libro, Des hommes qui lisent, “degli uomini che leggono”, una rilettura attraverso i libri della storia francese degli ultimi secoli, per capire che l’ex-sindaco di Rouen è un uomo di cultura con radici solide, seppur il suo percorso politico sia passato dal socialista Ricard al gaullista Juppé, poi a Fillon per terminare con Macron. Un uomo che forse potrà riservare delle sorprese ai francesi. I prossimi mesi lo diranno, perché la crisi francese, oltre che economica per aver ignorato la crisi del 2007-2008 e per le rigidità dell’amministrazione pubblica, è soprattutto una crisi di fiducia nel futuro. È una crisi di senso della “laicità alla francese”, di fronte alle gravi crisi provocate dal terrorismo e dallo stato di perenne emergenza in cui i gilet jaune hanno spinto il Paese.