Macron 2.0? Forse che sì forse che no
Come era previsto dai sondaggi, che una volta tanto ci hanno azzeccato, Emmanuel Macron non ha dovuto interrompere la sua residenza all’Hotel dell’Eliseo, sede della presidenza della Repubblica francese. Per altri cinque anni guiderà il Paese dei 365 formaggi (anzi, di più, secondo il noto detto del generale De Gaulle), cercando di trovare quella sintonia col suo popolo che gli è mancata sin dagli inizi della sua carriera politica.
Figlio della trafila formativa e amministrativa più tradizionale della Francia, Macron si è sempre presentato come un jeune cadre dynamique, un giovane quadro dirigente dinamico, come si dice in Francia per indicare i giovani rampanti, e per giunta parigino. Non si è mai mostrato come un “figlio del territorio”, attaccato alle tradizioni locali, al terroir, ed espressione di uno dei partiti tradizionali, oggi in gravissima crisi. Macron è stato eletto due volte perché non aveva di fronte a sé avversari adeguati. Ed ora ripercorre la tradizione dei De Gaulle, dei Mitterrand e dei Chirac, eletti due volte, seppur per mandati di sette anni, alla presidenza della Repubblica francese.
Solo Marine Le Pen per due volte lo ha sfidato, godendo dell’appoggio di una base contraria alla tradizionale congrega di politicanti francese, ma non riuscendo a godere a sufficienza della base di scontenti che pur esiste in Francia, comunque legati al “patto repubblicano” di non permettere all’estrema destra di salire al potere. Più del 42 % raggiunto questa volta è difficile per lei incamerare: sembra difficile che possa aumentare ulteriormente i suoi suffragi per arrivare all’Eliseo. Come da lei stesso annunciato in campagna elettorale, forse è giunto il momento di farsi da parte, anche se nelle dichiarazioni post-elettorali la figlia di Jean-Marie sembra essersi rimangiata almeno in parte la promessa: non abbandonerà i suoi sostenitori.
Paradossalmente, la rielezione di Macron al secondo turno sarebbe andata diversamente se un candidato qualunque del centrosinistra avesse raggiunto il ballottaggio, perché la patente di “repubblicano doc” appartiene agli esponenti del centro o della sinistra ma non della destra. Fatto sta che Macron ha vinto il secondo turno delle elezioni presidenziali francesi con 7 punti in meno delle elezioni del 2017 (allora 66%, oggi 58%), il che già dice la difficoltà di essere rieletto con un bacino di supporter che è poco più di un quarto dell’elettorato francese, e con quote di popolarità bassissime. Se Macron ha sì riconquistato la poltrona, non è però ancora entrato nel cuore dei francesi che l’hanno rieletto solo perché non c’era di meglio da fare.
Macron ha vinto il secondo turno ma non ancora il terzo delle elezioni, quelle delle legislative che si terranno tra un paio di mesi. Riuscirà a creare un governo con una maggioranza a lui fedele o dovrà, come è accaduto a Chirac e Hollande, dover coabitare con un premier espressione di una maggioranza diversa dalla sua? La questione è complicata dal sistema elettorale francese, che prevede in ogni dipartimento elettorale una mini-elezione presidenziale, con tanto di due turni. Se Marine Le Pen non stringe alleanze con Zemmour e altri candidati della destra, riuscirà a ottenere solo poche decine di deputati, e analogamente si può dire per Mélenchon, il candidato della sinistra che ha ottenuto più del 20 per cento dei voti al primo turno. Le alleanze in Francia sono essenziali per conquistare il parlamento, e per di più vi deve essere un radicamento nel territorio per riuscire nell’impresa.
È per questo motivo che i partiti tradizionali, cioè gli schieramenti gaullisti e socialisti, possono sperare di risorgere alle prossime legislative. Ma alle presidenziali hanno ottenuto risultati talmente insignificanti da mettere ora in dubbio la loro capacità di resilienza, e quindi di riprendere il loro posto all’Assemblea Nazionale ai livelli del passato. Cosicché non è escluso che in parlamento non si riesca ad avere maggioranze chiare e sicure.
In sostanza, Macron può essere considerato il primo prodotto dell’era digitale, quasi un avatar di sé stesso, un personaggio bionico incapace di sentimenti popolari, che resta in sella solo perché riesce a far funzionare bene i suoi algoritmi elettorali. Che lo si voglia o no, solo un francese su cinque è convinto che sia la scelta migliore.