Macedonia, laboratorio di intercultura
Poche ore dopo l’arrivo in Macedonia, mi trovo a pranzo con il professore Aziz Shehu, ordinario presso la facoltà di Pedagogia dell’università San Cirillo e San Metodio di Skopje. Ormai vicino alla pensione, è una personalità conosciuta nell’ambito accademico non solo del suo Paese. Di origine albanese, è musulmano. Nel corso di un ottimo pranzo durante il quale propone le specialità locali, offre un quadro della situazione storica, politica e socio-culturale della nazione balcanica. È un discorso che parte da molto lontano: da Alessandro Magno, il Macedone appunto, a cui è oggi intitolato il modernissimo aeroporto della capitale e alcune imponenti statue apparse di recente in vari punti della città, soprattutto nella grande piazza Makedonija.
La conversazione si snoda attraverso 2400 anni di storia, toccando il periodo dell’impero romano, della discesa delle popolazioni slave, la lunga presenza ottomana e, più vicino a noi, le due guerre balcaniche, preludio del primo conflitto mondiale, e l’era-Tito, durante la quale la Macedonia era stata riconosciuta come Repubblica insieme a Serbia, Bosnia, Slovenia e altre. Il quadro che emerge è una trama complessa e intricata dove, come è tipico dei Balcani, etnie, culture, lingue e religioni si sono incontrate e scontrate in nome delle diverse identità.
Apprezzo, ora, la sintesi del demografo polacco Zygmunt Sulovski, secondo cui, se la coscienza nazionale dell’Europa centrale era data dalla lingua e quella dell’Europa occidentale dallo stato di diritto, quella dei Paesi dell’Europa orientale è stata marcata in modo particolare dalla religione. Spesso, riferendosi ai Balcani, si è parlato di etnicizzazione della religione.
È proprio quanto si tocca con mano in Macedonia, uno degli Stati più minuscoli dell’Europa, ma vero caleidoscopio di etnie, lingue, culture e religioni. Basta scorrere i dati dell’ultimo censimento completo, quello del 2002: una popolazione di poco superiore ai due milioni – quasi 600 mila vivono nella capitale Skopje, per buona parte ricostruita dal devastante terremoto del 1963 – caratterizzata da una prevalenza macedone (64,18 per cento) e da una forte minoranza albanese (25,17 per cento), con turchi (3,8 per cento), rom (2,6 per cento), serbi e bosniaci.
Essere macedone significa parlare una lingua, scritta fra l’altro in cirillico, ma soprattutto essere cristiani, con una tradizione che risale ai tempi del monachesimo dell’Oriente, che trova i suoi padri in san Clemente di Ohrid e san Naum, vissuti prima della separazione fra Costantinopoli e Roma. A quella radice comune si rifanno tutti, ma oggi il cristianesimo è quello ortodosso (64 per cento) con poco più di diecimila cattolici, di rito latino e bizantino. A fronte sta l’identità albanese, sinonimo, anche se alcuni sono cristiani, di Islam.
Le cose, tuttavia, non sono così semplici. Ad esempio, un monsignore della minuscola comunità cattolica di Skopje che, al termine della messa nella piccola cattedrale, mi spiega di essere del Kosovo, ma di origine croata e, ovviamente, cristiano cattolico e di rito latino. Ognuno di questi termini esprime un’identità, ma quella chiave è il suo essere croato che implica la sua cristianità e cattolicità latina. Ovviamente, ci sono altre identità nella stessa persona, soprattutto il fatto che è macedone, anche se la sua lingua madre – ne parla molte – è il croato.
È in questo contesto, per altro tipico sia pure in modi diversificati, in tutta la regione balcanica, che la Macedonia cerca di entrare nella storia dell’Europa e del mondo del XXI secolo. Non è un processo facile. Lo Stato, infatti, non è ancora riconosciuto dalla Grecia, risentita dal fatto che il Paese porti lo stesso nome di una regione che i greci ritengono parte integrante del loro Paese e della loro cultura. Il contenzioso, ovviamente, mette in gioco l’identità di un popolo che, tuttavia, non ha dubbi sulla sua macedonicità, ma è chiamato a ridefinirla e armonizzarla alla luce dei processi storici e del mondo attuale.
Inoltre, non mancano le tensioni fra macedoni e albanesi, soprattutto dopo il conflitto del 2001, quando la minoranza albanese insorse reclamando una maggiore partecipazione nell’amministrazione e un riconoscimento reale della propria etnia, cultura e lingua. Gli scontri durarono solo alcuni mesi e il Trattato di Ohrid mise fine a una situazione che poteva degenerare in un conflitto altrettanto violento e sanguinoso come quello di altre parti dei Balcani.
Tuttavia, la tendenza a polarizzare è ancora in atto. La politica scolastica, ad esempio, permette l’istruzione nelle rispettive lingue, ma non promuove l’integrazione fra gli studenti. Esiste la possibilità concreta, seguita dalla maggioranza, di studiare nel proprio idioma dall’asilo all’università. Questo significa non avere contatti con l’altro gruppo linguistico e, dunque, con un’altra etnia e la sua religione.
I leader religiosi, comunque, si stanno rendendo conto delle conseguenze deleterie di processi di polarizzazione e, sia pure con notevole fatica e non pochi sospetti, si trovano costretti a trovare strade e opportunità di aprirsi agli altri. È quello che S. B. Stefano, arcivescovo di Ohrid e primate della Chiesa ortodossa della Macedonia, staccatasi dal patriarcato di Serbia nel 1967, senza tuttavia essere riconosciuta come autocefala, afferma nel corso di una cordiale conversazione nel suo ufficio, all’ombra della moderna cattedrale di San Clemente: «Il mondo è grande, è il cuore dell’uomo che è piccolo», mi dice. Ma il desiderio e ugualmente le difficoltà non mancano da parte musulmana, come sottolinea Jakub Selimoski, uno dei tre collaboratori più stretti del capo della comunità islamica del Paese, incaricato per la cultura e la formazione all’Islam. Citando due sure del Corano, sottolinea come la diversità sia stata creata da Dio perché imparassimo gli uni dagli altri e collaborassimo reciprocamente. Selimoski ricorda con grande affetto i suoi tre incontri con Giovanni Paolo II, «un papa slavo», ci tiene a precisare.
Ma è anche a livello di base che si stanno facendo passi preziosi su un cammino tutt’altro che facile. Durante la mia permanenza, ho avuto la possibilità di partecipare a un convegno-vacanza sulle alture di Kičevo, a metà strada fra la capitale e Ohrid. Si trattava di un gruppo composito, un vero spaccato del Paese in quanto a lingue (albanese e macedone), a etnie (ancora macedoni e albanesi, ma anche croati) e, soprattutto, a religioni. Fra gli ottanta presenti una quarantina erano cristiani e una trentina musulmani. Mi ha colpito la sorpresa di molti nel constatare che si può vivere insieme e scambiarsi opinioni, esperienze di vita e prospettive future.
Un giovane cattolico confessava di aver scoperto quanto la sua fede fosse esclusiva e non ammettesse ortodossi, musulmani e atei. Aver vissuto per tre giorni con persone di altre etnie e religioni «mi ha fatto scoprire che Dio fa sorgere il sole per tutti». Il prof. Shehu ha partecipato ai presenti l’esperienza della sua facoltà, che sta impostando una prospettiva di pedagogia di comunione con la categoria di fraternità come fine da realizzare e la regola d’oro come metodologia formativa. Non si tratta di un esercizio accademico. La facoltà, da cinque anni, in collaborazione con altre istituzioni già attive in questo ambito, ha dato vita a un asilo per dimostrare la sostenibilità dei processi integrativi fin dai primi anni di vita.
Spesso, in diversi ambiti sono stato interpellato sulla possibilità della presenza della Macedonia nell’Unione europea. Mi sono reso conto quanto, al di là delle questioni della finanza attorno alle quali da tempo si sta coagulando il discorso dell’Europa e della sua unione, l’integrazione resti il punto chiave della questione europea, di fronte ai processi migratori degli ultimi trent’anni. È su questo, oltre che sull’economia, che si gioca il futuro del continente. In tal senso, l’Europa avrebbe bisogno di Paesi che offrano un’esperienza, sia pure complessa e problematica, di vera integrazione fra i diversi gruppi che ormai la popolano.
In questo senso, una giovane repubblica, come la Macedonia, da secoli avvezza ai flussi migratori e agli incontri fra culture ed etnie, potrebbe davvero offrire un laboratorio e un contributo prezioso a una Europa sempre più integrata e capace di trovare una identità consona ai tempi.